Quando un intrigo tira l’altro: L’esplosivo piano di Bazil PDF 
Elisa Mandelli   

Uno strano oggetto confonde le acque della distribuzione cinematografica natalizia, intrufolandosi tra cinepanettoni e blockbuster, cartoni animati e film in 3D. Un curioso oggetto dal titolo un po’ bizzarro (ancor più bizzarro in originale: Micmacs à Tire-larigot, ossia “intrighi a più non posso”, o anche “a garganella”), e dalla trama che fa pensare più ad una favola per ragazzi (1) che a un film d’autore. Eppure le due cose non si escludono, soprattutto se il regista è colui che ha dato vita al poetico mondo della timida Amélie Poulain. Jeunet torna nelle sale a quasi dieci anni da Il favoloso mondo di Amélie (2001) e a sei dal suo ultimo film, Una lunga domenica di passioni (2004), e in un attimo gli intervalli di tempo che separano le sue opere non sembrano che mera cronologia di fronte ad un universo poetico proliferante ma in fondo coeso, caleidoscopico ma intimamente coerente. Un’eccentrica realtà dall’atmosfera sognante, un mondo tanto quotidiano quanto surreale, popolato da strani personaggi infantili e visionari, goffi e un po’ impacciati, con un’immaginazione travolgente e un’inventiva incontenibile. Da Delicatessen a La città perduta, da Il favoloso mondo di Amélie a Una lunga domenica di passioni (lasciando un po’ a margine Alien -  La clonazione, in cui la personalissima fantasia di Jeunet si innesta nell’universo già ben delineato della saga), fino all’ultimo L’esplosivo piano di Bazil, ogni cosa si richiama e si ripropone, si trasforma e si ribalta, si rinnova e si attorciglia senza sosta su se stessa. In un’instancabile dialettica tra inedito e familiare, tra uno e molteplice, microcosmo e macrocosmo, il percorso creativo del regista francese procede con una linearità percepibile per quanto sui generis, cadenzata da salti e scossoni, da improvvise accelerazione e brusche virate.

Così come in tutti i tasselli del puzzle che l’hanno preceduto, anche nel suo ultimo lavoro Jeunet si diverte ad assecondare e insieme stupire, a rassicurare solo per poi spiazzare, a mettere a proprio agio appena prima di far sussultare sulla poltrona. Irriverente, lo fa fin dall’incipit: nell’irreale e sospesa tranquillità del deserto un soldato intento a disinnescare una mina salta improvvisamente in aria. È il padre del piccolo Bazil, il quale si trova nella sua cameretta a chilometri di distanza, ma non per questo al sicuro: la violenza della detonazione sembra investire anche lui, facendolo scontrare a tutta forza con il mondo e costringendolo in un attimo a dire addio alla propria infanzia. La madre, distrutta dal dolore, è rinchiusa in una clinica (un’eco della madre nevrotica di Amélie, un’assenza che riecheggia quella dei genitori di Mathilde in Una lunga domenica di passioni), e il piccolo finisce in un orfanotrofio, da cui scappa ben presto con uno stratagemma che ripropone, ribaltandone l’esito, lo sfortunato tentativo di fuga del garzone di Delicatessen, destinato a diventare nutrimento per gli inquilini del palazzo. Trent’anni dopo, la sorte ha in serbo per Bazil un’altra esplosione (in fondo potremmo dire che più che il “piano”, è il destino stesso di Bazil ad essere esplosivo, così come era “favoloso” quello di Amélie nel titolo francese del film: Le fableux destin d’Amélie Poulain): durante una sparatoria davanti alla videoteca in cui lavora, una pallottola vagante lo colpisce in piena testa. Il dottore sceglie di non estrarla, evitando che diventi un vegetale, ma non potendo sottrarlo al rischio di morire da un momento all’altro. Al povero Bazil rimane dunque, dietro una cicatrice sulla fronte (che, con un po’ di malizia, potrebbe farci venire in mente quella dell’Harry Potter di cui Jeunet ha rifiutato di dirigere un capitolo della saga) un inquietante memento mori, che pure egli non esita a trasformare in un’intraprendente e gioiosa apertura alla vita. Nel momento stesso in cui il protagonista sembra interiorizzare, assumere fisicamente su di sé il peso della violenza minacciosa e imprevedibile che incombe su ognuno di noi, egli riesce a ribaltarla in speranza, in un’energia vitalistica e dai tratti fortemente pacifisti. Rimasto senza casa e senza lavoro, ma ben lungi dal perdersi d’animo, Bazil, amabile vagabondo dall’aria chapliniana, viene “adottato” da una stramba famiglia di clochard, che vivono recuperando e riassemblando i rifiuti di una civiltà – naturalmente la nostra – opulenta e incline allo spreco. Nel loro rifugio popolato da ingegnosi quanto poetici apparecchi meccanici (la cui magia è eguagliata solo dalla fantasia di Gondry), essi sembrano incarnare una rivisitazione moderna e (quasi) realistica dei sette nani, con tanto di gag sulle mani non lavate prima di cena, e di una Biancaneve (Yolande Moreau, attrice cara a Jeunet) le cui figlie sono scomparse, come Alice, dietro uno specchio (quello del Luna Park). In questo eccentrico microcosmo le regole (se ancora ne esistono) sono quelle di un mondo infinitamente più ricco di quello reale, proliferante e in continua ed imprevedibile evoluzione: a venire riutilizzati e restituiti a nuova vita non solo oggetti e materiali, ma interi universi immaginari, personaggi e vicende scaturiti dal mondo formicolante della fantasia.

Se L’esplosivo piano di Bazil ha certamente qualcosa della favola, come in ogni favola che si rispetti un male diffuso ed astratto prende corpo in un nemico concreto (e ovviamente sgradevole), che in questo caso sono addirittura due: i mercanti d’armi da cui provengono la mina che ha ucciso il padre e la pallottola che ha in testa, e, per una sorta di proprietà transitiva, tutte le sue sventure. Contro di essi Bazil può finalmente orchestrare più che una vendetta, una vera e propria rivincita, dove il campo semantico del secondo termine rimanda al mondo infantile, alla dimensione del gioco e alla seconda chance che viene data a chi all’inizio sembra essere il perdente. Ed è proprio l’infanzia l’orizzonte di valori in cui si muove Bazil: per quanto gli sia stata bruscamente negata, egli (come Amélie, d’altronde) non la perde mai del tutto, la conserva come un dono un po’ fuori luogo ma non per questo meno prezioso: con la sua vivace incoscienza, la sua candida furberia e il suo senso della giustizia ingenuo ma privo di sbavature, egli sa muoversi leggero tra i pesanti grattacieli in cui si arroccano i mercanti d’armi, riuscendo a colpire le loro debolezze con un intuito infallibile ma scevro da ogni malignità. Come la maggior parte dei personaggi di Jeunet (e certamente come tutti quelli positivi), Bazil assomiglia un po’ ai bambini di Delicatessen (e naturalmente al clown protagonista, l’immancabile Dominique Pinon), i quali, tutti intenti ad architettare i loro scherzetti, riescono a non farsi contagiare dall’orrore che impregna il mondo insieme postatomico e primitivo in cui vivono. La lotta della banda di clochard non è che un ininterrotto gioco (e per i bambini, si sa, non c’è cosa più seria), in cui la rivincita ottiene il suo scopo: nonostante l’iniziale caduta, Bazil è un personaggio vittorioso, e il suo piano procede come un meccanismo ben oliato in cui, se gli ingranaggi si inceppano, lo fanno più per effetto comico che per un reale snodo problematico. Il protagonista e i suoi complici sanno muovere i loro antagonisti come pedine, dosando sapientemente la capacità di agire e quella di attendere, di architettare piani ingegnosi e di lasciare che l’avidità e l’egoismo umano ne producano anche di più devastanti. L’intera vicenda si dipana in un susseguirsi di gag dalla cadenza quasi ipnotica, in cui l’autonomia delle singole sequenze si inscrive in una struttura narrativa fondamentalmente coesa e in un andamento che a ben vedere non potrebbe essere più lineare. A patto, certo, che si accetti uno sviluppo dal ritmo sincopato, animato da bruschi arresti e repentine – ed esaltanti – ripartenze, ricco di torsioni ma mai di nodi inestricabili.

A tenere insieme la vicenda di Bazil non interviene nemmeno la voce narrante, che in altri film di Jeunet aveva invece il compito di accompagnare lo spettatore nel suo percorso tra le pieghe del racconto. Ma più in generale sono le parole stesse a farsi sporadiche, a rarefarsi fin quasi a scomparire: alla verbosità insensata e quasi delirante dei mercanti d’armi, il protagonista oppone un silenzio quanto mai eloquente e comunicativo. Le sue azioni non hanno bisogno di spiegazioni, e si risolvono in gag dalla forte componente fisica, in cui sono il corpo e le espressioni del volto a giocare il ruolo chiave, tanto nello sviluppo della narrazione quanto nei rapporti tra i personaggi. Anzi, è la mimica che non di rado deve intervenire a sanare i conflitti innescati proprio dalla comunicazione verbale, come nel rapporto tra Bazil e la contorsionista: se le parole sembrano mancare irrimediabilmente il loro scopo, dando il via a vere e proprie catene di equivoci e incomprensioni, sarà solo la vicinanza dei corpi a colmare la frattura tra il pensiero e l’espressione. Grazie al talento di Danny Boon, Jeunet può fare spazio ad una comicità memore della lezione della slapstick comedy, di Keaton e Chaplin ma anche di Tati, e che sa nello stesso tempo, al momento opportuno, sfruttare la parola come se fosse una materia plastica, infinitamente manipolabile. Così il personaggio dell’etnologo africano scopre, con ingenuo stupore e inesauribile meraviglia, i cliché della lingua, le frasi fatte e i modi di dire più consunti e stereotipati, riassemblandoli e rivitalizzandoli nel suo modo di esprimersi insieme vecchio e straordinariamente nuovo, la cui paradossale originalità sta proprio nel basarsi su ciò che di più logoro sembra offrire il linguaggio.

Le situazioni, i corpi, le parole: tutto è, nel film di Jeunet, in perenne movimento, in costante e inesauribile trasformazione. La stessa città di Parigi, sfondo delle vicende, è continuamente attraversata da vettori che vanno in tutte le direzioni. Su e giù: dal “ventre” vivace e formicolante del rifugio dei clochard, ai tetti degli edifici, coi loro comignoli “parlanti” e rivelatori, dove si scoprono, mescolati al fumo dei camini, i segreti più nascosti. Avanti e indietro per il lungosenna e per strade in cui i moti del traffico sono in sintonia con le esigenze narrative: ora deserte ora congestionate dal traffico, le vie di Parigi sanno essere lo scenario perfetto tanto di solitarie peregrinazioni quanto di rocamboleschi inseguimenti, non senza all’occorrenza farsi complici di strizzate d’occhio metanarrative (come quando esibiscono in bella mostra cartelloni pubblicitari con la locandina del film che lo spettatore sta guardando in quello stesso momento). La città si rivela quanto mai permeabile, quasi porosa, e in essa dentro e fuori, pubblico e privato (e, in sostanza, individuale e universale) sono concetti relativi, dai confini incerti e sfumati, facilmente rovesciabili l’uno nell’altro. È una Parigi complessa, che può essere se stessa al punto da farsi quasi icona (se non stereotipata, certo immediatamente riconoscibile: si pensi alle inquadrature del Moulin Rouge, come già del Sacro Cuore in Il favoloso mondo di Amélie), ma che può magicamente diventare altro, perfino un deserto soleggiato e abitato da guerriglieri assetati di sangue. Complici i movimenti di macchina ampi e fluidi, non di rado arditi, ogni luogo e ogni situazione possono sempre ribaltarsi in qualcos’altro, aprirsi al loro stesso contrario, che sia reale o immaginario. Basta un controcampo o un piccolo aggiustamento del quadro a rimescolare le carte in tavola, è sufficiente che un elemento inatteso spunti dall’angolo dell’inquadratura in cui giaceva inosservato per riposizionare le pedine e ridare il via ai giochi.

Se lo spazio è impossibile da circoscrivere una volta per tutte, non diversamente avviene per il tempo: la Parigi di Bazil racchiude una temporalità stratificata, quanto mai immersa nello spessore del presente e contemporaneamente al di fuori del continuum della Storia. I motivi e le logiche della nostra più viva attualità sono come attraversate da un ritmo del tutto differente che ne scompagina l’ordine, fino a rendere secondari i punti di riferimento cronologici. Il travolgente potere comunicativo di YouTube convive con un utilizzo un po’ romantico delle cabine telefoniche, i dispositivi hi-tech che popolano la casa di uno dei mercanti d’armi non riescono a fare breccia nella trentennale e obsoleta guardiola del suo vecchio vigilante. Un tempo che sa amalgamare, senza però confonderle, più dimensioni, in cui il nuovo coesiste con i residui e le sopravvivenze del passato, e in cui ogni elemento isolato viene recuperato e rimesso in movimento nell’andamento tipico della fiaba, nel suo eterno ritorno (quasi) identico a se stesso. Come i suoi personaggi, Jeunet riassembla gli avanzi, gli scarti della Storia e delle storie, creando un caleidoscopio di situazioni insieme singolari ed universali, giocose e terribilmente serie, semplici e pronte ad aprirsi ad un’inaspettata complessità. Un oggetto davvero strano, L’esplosivo piano di Bazil, che fa (finalmente) detonare le nostre abitudini più logore, ma solo per aprirci nuove, stupefacenti strade da esplorare.

Note:
(1) Il film è stato presentato quest’anno al “Sottodiciotto Film Festival- Torino Schermi Giovani”, durante il quale è stata inoltre dedicata a Jeunet una retrospettiva completa.

 


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