Gertrud, una scelta esistenziale ed estetica PDF 
di Claudio Di Minno   

Sulla parola "nulla" si chiude il monologo di Persona, sul "niente" della porta chiusa, il vuoto, Gertrud.
(Guido Aristarco)

Alla sua comparsa sugli schermi, molti critici accolsero Gertrud con notevole scetticismo. È il 19 dicembre 1964 quando il film, in un'atmosfera ricca di attese, venne presentato a Parigi per la prima volta, dove a sorpresa fu colpito da attacchi molto severi, che accusavano il regista danese - assente da dieci anni dalle sale - di sterile esercizio formalistico e di senilità. In Italia, perentorio fu il giudizio di Fofi, che liquidò la questione definendolo "un film vecchio di un vecchio", un film dalla "forma così visibilmente e volutamente antiquata". Molti altri si attestarono su posizioni non dissimili, magari solamente meno nette, quasi in forma di rispetto verso un cineasta oramai celebrato come vero e proprio monumento del cinema mondiale. Gli aspetti del film che sfuggirono ai più furono invece colti da Godard, secondo cui, dal punto di vista delle qualità formali, "Gertrud eguaglia in follia e bellezza le ultime opere di Beethoven". Tuttavia, il giudizio di Godard fu isolato. Invero, furono pochi a cogliere la portata di un film dal sapore tanto "antico" quanto rivoluzionario.

Scrive Tone: "Indubbiamente è un testo esemplare, che non si limita a citare dal passato, ma lo rimette in discussione e "reinventa" le soluzioni linguistiche di Ordet". Perché Dreyer, nel periodo di diffusione e successo critico del cosiddetto cinema della modernità, ne fornisce egli stesso un saggio completo e rigoroso. Potrà apparire paradossale, ma Gertrud è film vicinissimo a Pierrot le fou di Godard, ritenuto l'esempio più estremo di sperimentazione della modernità. Le due pellicole non sono solo prossime da un punto di vista cronologico - la prima è del 1964, la seconda del 1965 - ma lo sono anche sotto altri e più importanti aspetti. Pierrot le fou è un film moderno nella velocità del suo svolgersi, tanto quanto Gertrud lo è nella sua lentezza.

Come accadde già per Vampyr Dreyer imposta il film su un'idea di regia da perseguire fino in fondo: se nella pellicola del 1931 questa idea è lo spostamento, il movimento, in Gertrud è la stasi, la totale immobilità. La scansione narrativa si rallenta ed è questo rallentamento a generare i "non accadimenti" che costituiscono la diegesi del film. Linguisticamente, il piano sequenza e la sostanziale fissità delle inquadrature contribuiscono ad una "dedrammatizzazione" ancora più radicale che in Ordet.

Alla sostanziale rarefazione del movimento della macchina da presa si accompagna quella dei personaggi e della loro recitazione: Gertrud spesso esclama "Oh Erland!", riuscendo in questa breve affermazione a rendere ciò che in Vampyr si realizzava in un'intera lunga sequenza. Una recitazione straniata che pone i personaggi in continua presenza del pubblico, cui si rivolgono direttamente recitando la loro parte senza enfasi. Dreyer tende ad annullare ogni eccesso: dalla recitazione, all'uso, sempre parsimonioso, delle scenografie e delle musiche, poche e usate solo all'occorrenza (come nella sequenza del "rifiuto" tra la protagonista e lo scrittore Lidman). Depura laddove un tempo avrebbe accumulato, mirando all'essenzialità del tutto, anche del gesto - sempre ridotto, ma intenso - e della parola. Dilata pochi istanti fondamentali lungo l'intera partitura, quelli che vedono la protagonista prendere decisioni essenziali, necessarie. Realizza un'opera, insomma, di cinema puro, in quanto cinema depurato. Un film saggio: in questo consiste la sua modernità, nel suo parlare anche e soprattutto di se stessa, del suo linguaggio e del linguaggio degli altri film. Non e un caso che proprio Straub e Bresson, registi di "struttura" e di profonda ricerca, si siano sempre dichiarati debitori di Dreyer e del suo Gertrud.

Ma la modernità di quest'opera risiede anche nella materia narrata. Il dilemma tra le diverse concezioni di vita e il dubbio costante sul reale potere dell'amore, fanno dell'opera un punto avanzato di riflessione sul concetto stesso di libertà e dei suoi limiti. Come in Mikael Dreyer ci parla dell'amore come ideale, come astrazione, come concetto puro. Gertrud afferma la sua libera scelta, ad ogni costo, correndo ogni rischio, denunciando la falsa coscienza della borghesia maschilista con "ferocia" e aggressività, seppur nei modi pacati e riflessivi che contraddistinguono il suo agire. Nel mondo borghese non sembra esistere più una reale possibilità di comunicazione: esemplare in tal senso l'ultimo dialogo di Gertrud e di Erland nell'atmosfera nuvolosa del parco (in deciso contrasto con la luminosità del loro primo incontro). Come scrive Tone "non esistono modi di comunicazione, e le parole cadono in un no man's land come frammenti privi di significato. Si vanifica, insomma, ogni effettivo scambio semantico".

Gertrud propone un'alternativa, una scelta esistenziale diversa, auto-condannandosi all'isolamento. Così anche il regista, ancora una volta, afferma le sue scelte estetiche, che comportano, come per la sua eroina, la solitudine. La solitudine che attende - privilegio e condanna al contempo - chi ha il coraggio di scegliere.

 


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