War Horse: Spielberg a cavallo nel passato del cinema PDF 
Piervittorio Vitori   

Nella Gran Bretagna prossima ad affacciarsi sul baratro della Grande Guerra, Ted Narracott, veterano del conflitto anglo-boero, acquista a un’asta un purosangue, battendo la concorrenza del possidente di cui è fittavolo. Il figlio di Ted, Albert, si affeziona subito al cavallo, che battezza Joey, convertendolo con successo in un animale da lavoro; deve però rassegnarsi a separarsene quando il padre, allo scoppio delle ostilità, lo vende a un capitano dell’esercito. Mentre Joey vive svariate peripezie a seguito dello sviluppo del conflitto in territorio francese, Albert si arruola a sua volta…

Il recente duello nella corsa agli Oscar tra The Artist e Hugo Cabret è stato letto da molti critici come il segno più evidente del desiderio del cinema mainstream (quello hollywodiano in senso stretto e quello che a Hollywood guarda) di abbandonarsi al piacere di una nostalgia autoreferenziale. Naturalmente la pellicola di Hazanavicius e quella di Scorsese presentano delle differenze sostanziali, alcune delle quali evidenziate brillantemente da un articolo di Adam Cook (1). Sintetizzando molto, questi sostiene che mentre The Artist è un film “capitalista”, poiché vede il cinema che fu come qualcosa di irrimediabilmente defunto e sostituito da forme espressive nuove, più adeguate (in senso darwiniano) alle richieste del pubblico e quindi più remunerative, Hugo Cabret è al contrario un’opera “spirituale”, giacché è dominata dall’idea che (citando Faulkner) “il passato non è morto. Anzi, non è neppure passato” (2), dimostrando ancora una volta come l’amore che Scorsese nutre per il cinema sia inestricabilmente legato all’interpretazione che l’autore da di sé e del mondo. Riporto queste considerazioni perché ritengo che rappresentino un utile abbrivio per l’analisi di War Horse. È vero che nell’ultima prova di Steven Spielberg dietro la macchina da presa, a differenza dei due titoli riportati sopra, l’universo della celluloide non è presente come oggetto diretto di sguardo, all’interno cioè di un esplicito gioco metacinematografico. Eppure i rimandi al passato della settima arte sono tanti e tali da rendere impossibile una discussione di questo lavoro che prescinda dall’affrontare il tema della cinefilia del regista.

Spielberg, del resto, l’aveva dichiarato fin dall’inizio: la trasposizione su grande schermo del romanzo per ragazzi di Michael Morpurgo - già oggetto di un adattamento teatrale, apprezzatissimo sia sui palchi londinesi che su quelli di New York - era stata pensata come un grande intrattenimento per famiglie che si rifacesse, in prima battuta, a certo cinema classico. È questa, allora, la chiave per leggere soprattutto l’impianto visivo del film: la prima parte, pastorale e bucolica, debitrice del John Ford “britannico” (Com’era verde la mia valle e Un uomo tranquillo); la carica della cavalleria inglese che riporta a Lawrence d’Arabia (una delle pellicole in assoluto più amate da Spielberg, che l’aveva già omaggiata più volte, dalla saga di Indiana Jones a Tintin); la guerra di trincea che ricorda almeno il Kubrick di Orizzonti di gloria; il finale che sembra pagare pegno tanto a Sentieri selvaggi che a Via col vento… e la lista potrebbe continuare. Muovendo da questa elencazione, appare chiaro come in partenza il regista vada collocato al fianco di Scorsese, nel campo di coloro per i quali il passato non è passato. A rafforzare questa teoria contribuisce la considerazione secondo cui War Horse vive anche di un altro tipo di citazionismo, quello legato ai precedenti dello stesso Spielberg. Il film si costituisce infatti anche come una summa di alcuni dei temi più caratterizzanti del catalogo personale del cineasta: il rapporto tra un ragazzo, isolato in un contesto adulto, e l’altro (inteso come non umano); quello, più in generale, tra l’animale-uomo e la Natura; il conflitto con la figura paterna; l’opposizione tra la crudeltà della guerra e il valore comunque positivo del coraggio individuale.

Soprattutto in relazione agli ultimi due elementi menzionati, il referente principale va chiaramente individuato in Salvate il soldato Ryan. In War Horse la figura di Ted, il padre del protagonista, richiama quella del capitano Miller: il dubbio paventato dal personaggio di Tom Hanks sulla possibilità di raccontare - una volta tornato a casa - la tragedia della guerra, diviene qui una fattualità, che coincide con il flaw del giovane Albert. Inizialmente incapace di capire il genitore e quindi di stabilire con lui un rapporto positivo, il ragazzo vi riuscirà solo quando sarà passato per un’esperienza analoga. Analogo è anche il sistema valoriale applicato all’oggetto-guerra. Se vogliamo ricercarvi un fattore positivo, questo non è certamente l’uccisione del nemico considerata in sé: Ted si vergogna di aver ucciso, Albert uccide quel minimo di soldati tedeschi necessario a conquistare una trincea (e, idealmente, a veder quindi riconosciuto e premiato il proprio coraggio), mentre in Ryan Miller riusciva a lasciar salva la vita a “Steamboat Willie” rivelando ai suoi uomini il proprio ruolo nella vita da civile, svelando cioè la propria umanità e facendo appello alla loro (interessante notare, peraltro, come il capitano, in quanto superiore gerarchico, acquisisca attributi propri della figura paterna). Tornando al film qui in oggetto, ecco che in un contesto la cui eccezionale drammaticità riduce tutti i personaggi a vittime, smorzando se non annullando le differenze tra loro e favorendo la nascita di un cameratismo altrimenti impensabile, la tensione positiva è dunque quella rivolta alla salvezza del prossimo, si tratti di un cavallo o del figlio del latifondista al cui potere economico si è sottoposti.

Il segno di maggiore discontinuità tra le due pellicole, d’altro canto, è dato con evidenza dal trattamento riservato alla messa in scena del conflitto: in War Horse il suo aspetto profilmico è rappresentato sì a tinte cupe - fatta salva la parte iniziale della scena della carica di cavalleria, e vedremo tra qualche riga perchè -, ma comunque con minor crudezza rispetto a Ryan, almeno nella misura in cui lì il sangue e la morte erano messi in campo nei loro dettagli più gore. Esemplare, in questo senso, la seconda parte della scena suddetta, quando entrano in scena le mitragliatrici nemiche: si dà qui una radicale ellissi, in virtù della quale il massacro dei cavalieri britannici rimane visivamente fuori campo, consegnato all’intuizione dello spettatore dall’immagine dei superstiti cavalli “scossi” che saltano oltre le linee nemiche. Uno svolgimento a rigor di logica assai implausibile (difficile che i tedeschi riuscissero a falciare i soldati e non i loro destrieri) deve forzatamente avere alla base ragioni che non siano quelle della verosimiglianza. Queste sono in parte rintracciabili nell’intento di partenza, vale a dire quello di confezionare un prodotto accessibile anche a un pubblico giovane; in questo senso, oltretutto, possono essere interpretate anche la scena dell’esecuzione dei due giovani disertori (con la loro morte che, nell’attimo in cui si compie, viene strategicamente coperta dalle pale del mulino) e la presenza nella diegesi di un nemico tedesco decisamente meno “cattivo” di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi.

Pure, c’è dell’altro: questi stessi elementi ci dicono di come il film sia inquadrabile alla stregua di una favola provvista di una forte aspirazione simbolica. La scena della carica, tornando all’esempio di cui sopra, è proposta inizialmente nell’ottica dei soldati inglesi e declinata nei termini di una speranza: la speranza che la guerra possa essere altro - quasi una sorta di torneo cavalleresco - da ciò che si rivelerà essere in realtà. Destinata per i cavalieri a volgersi in illusione, e quindi a dimostrare la propria fallacia, quando questi vengono falciati dalle raffiche di mitragliatrice, la speranza in sé sopravvive, incarnata da Joey e pronta a passare di mano in mano ma - almeno fino al climax rappresentato dalla scena ambientata nella terra di nessuno - senza che le conseguenze per i personaggi che se ne fanno carico cambino. Un ufficiale inglese, due fratelli tedeschi, una ragazzina francese: la dinamica appena descritta non fa distinzioni di sesso o nazionalità, a dirci che i diversi personaggi, già accomunati in sceneggiatura dal parlare tutti in inglese (altro elemento di inverosimiglianza e di discontinuità rispetto a Ryan), lo sono anche dal destino di morte.

Proprio l’avvicendarsi dei personaggi che si relazionano con il quadrupede porta al confronto con un’altra pellicola: si tratta di Au hasard Balthazar, l’opera che, al di fuori della filmografia di Spielberg, rappresenta per il titolo in esame la pietra di paragone obbligata sul piano del significato. E qui per War Horse emergono le note dolenti. Laddove, “testimone sofferente di tutte le declinazioni dell’enigmatico comportamento umano, Balthazar è pura esistenza, Joey è un’astrazione. Se Spielberg avesse scelto di mostrare la guerra (o la vita) dalla prospettiva di Joey, invece di usare il cavallo come protagonista della guerra, il film avrebbe potuto essere davvero terrificante” (3). La coerenza simbolica perseguita per veicolare il messaggio sembra infatti lavorare a discapito della coesione narrativa e del portato drammatico del film. Nel testo originale Morpurgo si permetteva di fare del cavallo il narratore in prima persona, mentre la versione teatrale animava dei modelli a grandezza naturale portando lo spettatore a un lavoro di produzione di senso e di emozione (4). Sul grande schermo, invece, il regista non riesce a conferire al suo protagonista equino lo statuto di personaggio a tutto tondo, e nemmeno, quindi, un punto di vista autonomo; né alcuna delle figure umane, nonostante la buona prova del cast, presenta uno spessore tale da potersi caricare sulle spalle la prospettiva del film o l’attenzione dello spettatore. Inoltre, lo script smussa alcune asprezze del libro (lì Ted era descritto come un codardo, e il suo rivale nell’asta per Joey era il fratello (5)) e si appoggia ad un sistema di set-up/pay-off che appare scontato (la fascia del reggimento del padre, l’incapacità di Joey di saltare) o insoddisfacente (l’abbandono del personaggio di Emilie, la cui fine viene elisa del tutto sul piano narrativo, per essere recuperata solamente con un racconto a posteriori). Per non dire del finale, con il ritrovamente del cavallo da parte di Albert che appare decisamente troppo casuale - e appunto favolistico - per rendere credibile il tradizionale nesso narrativo tra percorso e ricompensa e ribadire l’equazione, a metà strada tra Schindler’s List e Ryan, tra la salvezza del singolo e la salvezza/redenzione della collettività.

A fronte di quanto detto finora, non si può comunque contestare la riconosciuta maestria visiva di Spielberg, che qui ha il merito di rifiutare la facile scorciatoia dell’effetto speciale e può giovarsi dell’ottima fotografia in Technicolor di Janusz Kaminski. L’accuratezza della confezione è però un’arma a doppio taglio, giacchè ne deriva il sospetto che l’opera nasca più da una pianificazione a tavolino che da un’urgenza artistica; in altri termini, che la forza dell’immagine, unita alla ridondanza della colonna sonora di John Williams, ecceda nel tentativo di dettare la linea all’emozione. Scrive Cook nell’articolo segnalato all’inizio: “Hugo rende eccitante la prospettiva di vedere un film muto. The Artist, d’altro canto, si propone come un surrogato alla visione di un film muto”. Rilevando quindi la naturalezza con cui l’impianto formale di War Horse ingloba le citazioni stilistiche segnalate all’inizio - una naturalezza tale da negare allo spettatore lo stimolo a recuperare altri testi -, e unendo a questa considerazione la pressoché programmatica assenza di originalità congenita a questa operazione-nostalgia, si nota allora come la pellicola finisca con il situarsi senz’altro più nella metà campo di Hazanavicius che in quella di Scorsese. In conclusione, e per quanto riguarda la visione di cinema che emerge da questo film, il passato non è passato, ma solo per venire rielaborato dal presente al fine di ottenerne un simulacro chiuso in se stesso. Rimangono due ore e mezza di spettacolo per gli occhi, ma non è il caso di scomodare la spiritualità.

Note:
(1) cfr. Adam Cook, Past/Not Past: A Tale of Two Cinemas (http://mubi.com/notebook/posts/pastnot-past-a-tale-of-two-cinemas).
(2) Frase citata, guarda caso, dal protagonista di un altro titolo che, all’insegna della nostalgia, ha segnato l’annata cinematografica ed il palmares dell’Academy: Midnight in Paris di Woody Allen.
(3) J. Hoberman, Spielberg and Fincher: Taming Creatures (www.villagevoice.com/2011-12-21/film/taming-creatures).
(4) cfr. Justin Chang, War Horse (www.variety.com/review/VE1117946760).
(5) cfr. J. Hoberman, cit.

 


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