Giro girotondo: Perdona e dimentica PDF 
Matteo Marelli   

Presentato come sequel di Happiness, Perdona e dimentica, ultima regia di Todd Solondz (Premio Osella per la miglior sceneggiatura alla 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di  Venezia, e Mouse d’Oro, premio della critica online), è da leggersi anche come una sorta di variazione sul tema di quanto proposto nella pellicola cult del 1998. Il regista riprende temi e personaggi dell’opera precedente affidandone però l’interpretazione ad attori differenti, dimostrandosi così del tutto incurante dei rapporti di immediata continuità e riconoscibilità. Una soluzione non nuova per Solondz, affrontata con ancor più radicalità in Palindromi del 2004, dove la protagonista, Aviva, era interpretata da 8 attori di diversa età, razza e sesso, quasi una moderna Alice, oscillante “tra un corpo troppo grande e un corpo troppo piccolo nella speranza, prima o poi, di trovare una propria dimensione, definitiva” (1). Scelta comunque coraggiosa quella riproposta da  Solondz, soprattutto per il fatto che i protagonisti di Happiness si imponevano allo sguardo spettatoriale principalmente come corpi, desideranti e desiderati, origine o bersaglio di deviati appetiti erotici: lo psichiatra Bill Maplewood, sposato con Trish Jordan, era un pedofilo represso, morbosamente attratto dai compagni di scuola del figlio undicenne Billy, a sua volta, preda dei primi pruriti e dubbi sessuali. La sorella di Trish, Helen, era un’inappagata ninfomane, oggetto dei desideri del’inibito vicino d’appartamento Allen, solito sfogare le proprie frustrazioni sessuali esercitando molestie telefoniche. Tra le vittime di quest’ultimo anche Joy, la più giovane delle sorelle Jordan, allora impegnata ad elaborare il lutto di Andy Kornbluth, suicidatosi dopo che lei aveva deciso di mettere fine alla loro relazione.

In Perdona e dimentica ritroviamo dunque le famiglie Jordan e Maplewood, così come Allen e Andy, a cui si aggiungono Harvey e il figlio Mark Wiener, personaggi non  nuovi per i frequentatori dell’universo solondziano, essendo questi ultimi il padre e il fratello di Dawn, la protagonista di Fuga dalla scuola media del 1995. La figura di Mark  ritorna anche in Palindromi: è il cugino di Aviva, da tutti respinto perché accusato di pedofilia, che, in apertura del film, commemora la sorella suicidatasi perché incapace di portare a termine la gravidanza causatagli da una violenza sessuale. Il regista fa cortocircuitare i tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati. Non che sia necessario averli visti (Perdona e dimentica si regge autonomamente da sé), ma chi è in grado di cogliere i frequenti riferimenti disseminati lungo il corpo filmico può apprezzare maggiormente la compattezza e solidità dell’opera di Solondz. Ed è proprio guardando a questi rapporti che si può eleggere il palindromo quale figura chiave della sua cinematografia. Il palindromo, (dal greco antico πάλιν “indietro” e δρóμος “corsa”), etimologicamente “che corre all’indietro”, è una raffinata costrizione, uno schema chiuso che non dà via di fuga, è una parola che torna su se stessa per scoprirsi immutabile, esattamente come accade ai personaggi di Solondz. Quanto già espresso nel film del 2004, ovvero l’immodificabilità dell’esistenza (nessuno può cambiare, nessuno può migliorare: ognuno non può essere che ciò che è), è riaffermato in Perdona e dimentica con ritrovata efficacia. L’universo cinematografico di Solondz sembra quindi essere strutturalmente organizzato attorno ad un girotondo di schnitzleriana memoria. Arthur Schnitzler che diventa interessante termine di riferimento per via di un suo aforisma che ben si adatta a sintetizzare con icasticità il tema centrale dell’ultimo lavoro di Solondz: “Ciò che logora le nostre anime nel modo più rapido e peggiore possibile è perdonare senza dimenticare”.

Tutti i protagonisti del sesto lungometraggio del regista del New Jersey hanno qualcosa da perdonare e dimenticare perché su ognuno grava l’ingombrante e incombente presenza del passato. I personaggi devono reggere il peso di colpe commesse o subite, dalle quali provano a sbarazzarsi, cambiando città, quando non addirittura vita. Tuttavia, tali sforzi sono puntualmente vanificati dal riemergere del rimosso che obbliga ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità. Il passato si mescola col presente in maniera così insistita da rendersi indistinguibile, da essere, allo stesso modo, ovunque e da nessuna parte. A riaffiorare però non è soltanto il passato individuale, ma anche quello collettivo. Le paure innescatesi conseguentemente all’11 settembre 2001 sono ancora ben radicate nella coscienza di ognuno, soprattutto nella sensibilità dei più piccoli, per i quali la figura del terrorista ha sostituito quella del babau. Dal loro punto di vista chiunque commetta qualcosa di spaventevole è riconducibile a quell’appellativo. Vittima di questa confusione semantica è Timmy, il figlio di Trish, il quale, dopo aver scoperto che il padre, Bill Maplewood, non è morto, come gli era stato fatto credere, ma in carcere per abuso di minori, esigendo dalla madre chiarimenti, domanda anche se i pedofili siano come i terroristi, perché è in questi termini che la questione viene discussa  dai suoi compagni di scuola.  

Si è fatto precedentemente il nome di Schnitzler. Alcuni aspetti della sua poetica trovano corrispondenze nell’opera di Solondz. Innanzitutto l’emergere del rimosso che innesca effetti perturbanti. Nel saggio del 1919 intitolato Das Unheimliche (tradotto in italiano con l’espressione Il perturbante) Sigmund Freud avverte che la locuzione unheimliche non sta a indicare semplicemente la sensazione provata di fronte a qualcosa di strano e di insolito, ma assume anche altre sfumature che riguardano in primo luogo l’ambiguità del termine heimlich. Scrive infatti Freud: “In generale vediamo che la parola heimlich non è priva di ambiguità, appartenendo a due ordini di idee, che, anche se non contraddittorie, sono tuttavia assai diverse: da una parte significa ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato […] Schelling dice una cosa che illumina il concetto di unheimlich, in un modo inaspettato. Secondo lui è unheimlich tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce”. In seguito a una serie di riflessioni etimologiche, Freud arriva a concludere che heimlich è “una parola che si sviluppa in modo ambivalente, sino a coincidere con il suo opposto unheimlich”. Dunque, questi due termini, che in apparenza sembrerebbero ricondurre ad opposte realtà, effettivamente propongono un unico orizzonte di significati, quello in cui ciò che è quotidiano e familiare è di per sé inquietante in quanto nasconde, dietro l’apparenza tranquillizzante del conosciuto, qualcosa di perturbante perché profondamente ignoto. Una sensazione, quella qui descritta, rintracciabile sia nei testi di Schnitzler che nei film di Solondz, dove dietro […] l’apparente normalità covano pulsioni malsane ed emozioni represse” (2). Quanto espresso da Freud nei riguardi del collega e letterato può essere riutilizzato anche per parlare dell’autore di Perdona e dimentica: “Il Suo determinismo come il Suo scetticismo, che la gente chiama pessimismo, la Sua penetrazione nelle verità dell’inconscio, nella natura pulsionale dell’uomo, la Sua demolizione delle certezze convenzionali della civiltà, l’adesione dei Suoi pensieri alla polarità di amore e morte, tutto ciò mi ha colpito con inquietante familiarità”.

Altro elemento di continuità è il relativismo che emerge soprattutto nel momento in cui i due autori si confrontano con la sfera erotica. Entrambi danno centralità alla tematica sessuale. Sia per i personaggi dello scrittore che per quelli del regista la sessualità diviene emblema del loro modo di rapportarsi col mondo, in ambedue i casi l’erotismo, ormai disarticolato e svincolato dall’affettuosità, “è l’altra modalità di una inconsolabile tristezza di vita, che è l’incapacità di vivere l’amore” (3). Dice di sé Schnitzler: “È possibile che io sia relativista, anzi lo sono. Sono uno che ha cognizione di molti, troppi valori e li pone forse troppo volutamente, troppo dialetticamente a confronto”. Un modus operandi, quello qui riportato, in linea con quello solondziano. Il regista assume sempre uno sguardo neutro, distaccato nei confronti delle vicende narrate, non c’è mai accusa o raccapriccio, pietà o disprezzo verso i propri personaggi, anche quando questi sarebbero facilmente condannabili. “L’ambiguità di cui è stato accusato in passato il regista per la sua mancata presa di posizione nei confronti della pedofilia è stata erroneamente scambiata per assoluzione del fenomeno. Niente di più semplicistico, visto che la sospensione di giudizio è interpretabile piuttosto come coraggioso atto di civiltà” (4). In un epoca dove si dà precedenza alle opinioni sui fatti, Solondz molto onestamente cerca di ristabilire il giusto ordine d’importanza. Come da lui stesso dichiarato: “È molto facile demonizzare gli altri, è facile considerarli dei mostri, ma è invece molto più difficile riconoscere e ammettere che dietro a questi mostri ci sono delle persone”. Nel concreto questo sguardo etico si traduce in uno stile registico dove non compare mai un’inquadratura giudicante, mai un eccesso didascalico, mai una forzatura patetica. Non è mostrata alcuna empatia nei confronti dei personaggi, questi sono presentati con distacco anche nella loro mediocrità o nella loro sofferenza: vittime consapevoli, e non, delle proprie perversioni. Il regista predilige poi il racconto corale, per mezzo del quale riesce ad impedire l'immedesimazione dello spettatore, che è piuttosto condotto ad assumere un atteggiamento di egualitario fastidio nei confronti di ciò che viene mostrato. La sua opera non fa nulla per rendere più guardabile il mondo rappresentato, avanza con toni da commedia acida e pervertisce in vergogna il nostro ridere.

Se dal punto di vista dell’organizzazione strutturale dell’opera di Solondz è sembrato legittimo indicare il palindromo come termine di riferimento, per quanto concerne l’aspetto stilistico la figura che predomina è l’ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς “acuto” e μωρός “sciocco”), cioè il definire le cose per opposizione. Alla discrezione di ellissi che celano gli eventi e i misfatti più scabrosi, corrisponde, al contrario, il gusto di dettagli provocatori portati alla luce dalla macchina da presa che zoomma con impassibilità su ambienti e figure. Questo amore per il contrasto emerge soprattutto nella direzione dei dialoghi dove la sostanziale piattezza dei toni stride con la brutalità delle questioni affrontate (dai bambini soprattutto, sono loro a interrogarsi sulle questioni più controverse), che oltrepassano spesso la soglia del dicibile. Altrettanto efficace è la voluta discordanza che si stabilisce tra l’ordine e la compostezza degli ambienti che, invece di essere riflesso di stabilità domestica, sono teatro di rapporti familiari tormentati, difficili, delusi e, nell’insieme, condannati all’infelicità. Questo risalta in particolare in Perdona e dimentica, dove Solondz, coadiuvato dal direttore della fotografia Ed Lachman (Lontano dal paradiso, Io non sono qui), riesce a rivolgere un’attenzione ai dettagli in funzione di una significazione come mai prima gli era riuscito di fare. Il regista orchestra una battaglia dei rapporti tra immagine e significato degna del miglior melodramma classico, con la differenza che tutto quello che lì rimaneva studiatamente inespresso, qui viene enunciato alla lettera. Interessante, in questi termini, la scelta della Florida (ricreata per esigenze di budget tra Puerto Rico e Toronto) come sfondo per raccontarci le storie intrecciate di tutti questi esseri umani devastati dalla vita. Come dichiarato dallo stesso Solondz: “la Florida con i suoi colori, il mare e il sole, è in realtà uno Stato dove regna la dittatura del centro commerciale. Gli abitanti sarebbero capaci di rinunciare alla democrazia piuttosto che all’aria condizionata o a un parcheggio sicuro. Quindi mi è sembrato il luogo perfetto nel quale inserire i miei amati e deturpati soggetti”.

Alla luce di quanto detto si può convenire che Perdona e dimentica, ma più in generale tutto il cinema di Todd Solondz, alla fine altro non è che una favola gotica a tinte vivaci ineluttabilmente priva di lieto fine, perché, come canta Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti: “La vita è cattiva ma non l’ho inventata io”.

Note:
(1) Diego Mondella, Sgradevole è bello. Il mondo nel cinema di Todd Solondz, Edizioni Pendragon, Bologna 2010, p. 87
(2) Ivi,  p. 19
(3) Marino Freschi, La Vienna di fine secolo, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 81
(4) Diego Mondella, Sgradevole è bello. Il mondo nel cinema di Todd Solondz, op.cit.,  p. 43

 


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