Torino Film Festival 2001 - Americana PDF 
di Giampiero Frasca   

La sezione "Americana" del Torino Film Festival è ormai diventata una vetrina fondamentale per comprendere lo stato di salute e le varie novità provenienti dal mercato statunitense ed un punto d'osservazione privilegiato per tutti gli amanti del cinema a stelle e strisce, di qualunque genere esso sia e qualsiasi autorialità rappresenti. Alcuni nomi sostanziali del panorama realizzativo americano hanno fornito l'impronta ad una rassegna che ad ogni edizione del Festival continua a catalizzare l'attenzione dell'attento pubblico e a fornire le direttrici fondamentali di una cinematografia che pare non esaurire mai vena, mezzi e senso della storia.

David Lynch su tutti. Il film del bizzarro quanto affascinante maestro del Montana è un'ennesima ricognizione negli impervi (per gli altri autori) terreni dei piani temporali che si intersecano e delle personalità che si scambiano esistenze e nature. Mulholland Drive, progettato come episodio pilota di una serie televisiva che, a differenza di Twin Peaks, è naufragata nel nulla, rimane un esempio unico di come l'autore riesca ad infarcira una sola pellicola di tutte le sue convinzioni narrative e di tutti gli spunti iconografici da incubo che lo hanno reso celebre. Superando l'opprimente gioco schizoide di Strade perdute, Lynch racconta saldamente un vero e proprio delirio che prende le mosse da una strada collinare intorno a Hollywood (la Mulholland Drive, appunto) per realizzare un complicato gioco di matrijoske e scatole cinesi destinate, nonostante l'alternanza di toni - dal grottesco al surreale, dal comico al thriller, dall'horror al metacinema, senza alcuna soluzione di continuità - a concludersi in un oscuro e circolare scambio di identità pronto a richiudersi inesorabilmente su se stesso. Lynch, in Mulholland Drive, non narra soltanto un ulteriore capitolo del suo viaggio nella mente umana iniziato con Eraserhead, ma racconta soprattutto se stesso ed il suo modo di fare cinema, caratterizzato da presenze inquietanti che materializzano i più riposti fantasmi inconsci, dimensionalità spaziali spropositate che fanno da corollario a personaggi che si pongono come figure demiurgicamente malvagie, asfalti che conducono alla devastazione meccanica, comparse repentine e assenze improvvise apparentemente immotivate, voragini spazio-temporali che determina pause e ripartenze all'interno della narrazione.

E poi Abel Ferrara, del quale non si potrà mai dimenticare l'affettuoso bacio con cui, la sera di apertura del Festival, ha deciso di salutare il presidente del Festival Gianni Rondolino. Il suo R-Xmas è una sintomatica favola natalizia ambientato sul soffice sfondo della middle class newyorchese: due coniugi di origine dominicana si dividono tra il loro lavoro di spacciatori e la tenerezza dei preparativi delle festività. Gli ingredienti fiabeschi ci sono tutti, anche la presenza di un mèntore rappresentato da un poliziotto corrotto che permette al capo famiglia/pusher di poter riprendere la sua normale vita lontana dal traffico di stupefacenti. Il tutto è condotto con un'assoluta mancanza di rudezza (quella alla Cattivo tenente, per intendersi), con una particolare e singolare tenerezza che diventa una sorta di ossimoro visivo se rapportata allo scenario del Bronx in cui si svolge la vicenda e alla situazione sociale devastante rappresentata, in cui non esisitono valori positivi ma soltanto corruzione, paura e ripensamenti tardivi.

Di seguito John Cameron Mitchell e il suo Hedwig, uscito contemporaneamente nelle sale italiane, divertente storia di una rock star fallita, nato uomo nella Germania Est, ma consideratosi sempre donna, alla ricerca del successo negli States tra frustrazioni, deliri personali e smanie di protagonismo. Mitchell, nonostante la quasi esclusiva esperienza teatrale, mostra di possedere nerbo per il racconto, rifacendosi ai celebri esempi del passato (Rocky Horror Picture Show, Velvet Goldmine ma anche Priscilla, la regina del deserto) e svelando alcune scelte registiche particolarmente interessanti (come quella del gioco delle personalità vicendevoli realizzato attraverso l'uso di uno specchio tra Hedwig e colui che le soffierà il successo, Tommy). Esibito, metaforico (il muro di Berlino diventa immagine della divisione sessuale del personaggio), divertito e stupendamente musicato (da Stephen Trask, già autore con Mitchell della versione teatrale).

E ancora Brian Yuzna, di ritorno nei consueti territori dell'horror. A dire il vero, il suo Faust - Love of the Damned svela maggiormente il lato ludico e compiaciuto della realizzazione orrorifica, palesando, sullo sfondo di una storia d'amore stile 'la bella e la bestia', la natura del male attraverso scelte registiche ed effettistiche iperboliche che pur facendo riferimento al genere se ne allontanano ironicamente, quasi il regista di origine filippina volesse rivedere la concezione strutturale di riferimento, l'impalcatura iconica che sostiene il cinema dell'orrore.

Su tutti, quasi come un nume tutelare, Dennis Hopper con la versione restaurata del suo capolavoro maledetto The Last Movie (uscito in Italia con il titolo Fuga da Hollywood, che altro non è che una specie di riassunto di quello che gli capitò nel momento in cui presentò alla Universal il lavoro finito: un esilio che durò dal 1971, anno di realizzazione del film, fino al 1980, quando rientrò nel mondo del cinema quasi per caso con Out of the Blue, in sostituzione di un esordiente che non ha lasciato nessuna traccia di sé, tal Leonard Yakir). The Last Movie, arrivato dopo il successone di Easy Rider, è un farneticante trattato di cinema nel quale Hopper mette in scena le sue convinzioni del momento, ossia la realizzazione di film asintattici e privi di qualunque struttura che esulasse dalla pura magia del vero, dall'icona-cinema in quanto tale. Il risultato è un film sconclusionato, visionario, affascinante perché assolutamente privo di qualunque rigore strutturale (le sequenze iniziano, s'interrompono, hanno differenti sviluppi, ritornano al punto in cui si erano interrotte; la stessa pellicola inizia dalla fine per poi riconnettersi al termine della proiezione), esibizionista (alcuni frame sono stati cancellati 'perché sotto l'effetto di alcool e droghe', recita una sorta di didascalia impercettibile impressa sulla pellicola), puro nella sua ricerca della bellezza dell'immagine in sé, al di fuori della portata di una vicenda che diventa manifesto programmatico della concezione paranoica dell'autore.

 


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