E pensare che i produttori del film mostrarono non poche reticenze nell’elargire i denari necessari. A loro avviso, Il cielo può attendere non andava a parare da nessuna parte, non aveva messaggio. Anche il tedesco purosangue Lubitsch, come quasi tutti gli autori europei trapiantati al di là dell’Atlantico, dovette fare i conti con questo genere di limitazioni, figlie di un habitus tipicamente americano (specie nella stagione “classica” di Hollywood) che spingeva alla costante ricerca di un fine moralistico-catartico-redentore nelle pellicole.
Ma, per fortuna, il grande regista riuscì a fare il film praticamente come voleva, anche se aveva pensato ad un finale leggermente diverso. Un'opera modernissima in cui ancora oggi, a dispetto dei produttori, possiamo scorgere ben più di uno spunto contenutistico: il tema dell'amore (eterno?), della felicità, del senso della vita in generale non sono certo minuscole frivolezze. Il tutto condito da una regia d'alta scuola, abile nel far rendere al massimo gli attori e nell’esprimere un alone di malinconia tra le righe dell'impianto comico. In effetti, il “Lubitsch touch”, quell'ammiccare, quel provocare con ironica vivacità e con pennellate leggere tipico dell'autore tedesco, si risolveva nella capacità, propria di una ristrettissima cerchia di artisti, di farci passare senza fastidi né scossoni dal sorriso all'amarezza. Nel seguire la non irreprensibile vita di Henry van Cleve, dongiovanni impenitente con il volto di un adorabile Don Ameche, teniamo sempre a mente che l’intera vicenda non avrà un epilogo felice. Questo perché l'inferno, che le prime inquadrature indicano come la meta del viaggio terreno dell’uomo, seppur rappresentato con levità e con un diavolo incipriato e dalla botola facile, sempre inferno è. Dunque ci sforziamo di cogliere la ragione di quella fine e ci pare proprio assurdo che colui nel quale ci identifichiamo con tanta simpatia possa terminare la sua corsa tra le eterne fiamme.
Peccati di lussuria, certo. Ma non esageriamo. Anche il diavolo, infatti, al momento dell’accettazione non sarà d'accordo con questa interpretazione, e convincerà Henry a tentare di farsi accogliere in paradiso. Lo farà con una battuta, decisiva tanto nel definire il senso del film, quanto nello stringerci il cuore: se anche lassù non ci fossero l'amato nonno né tutte le donne della sua vita, ci sarà sicuramente la sua Beatrice, la moglie Marta (interpretata da Gene Tierney) ad intercedere per lui. In un momento tanto decisivo, persino il diavolo comprenderà come l'amore che univa i due, nonostante le scappatelle di lui, fosse un amore superiore, fuori dall'ordinario, da favola. Il loro lungo matrimonio era tutt'altro rispetto, per esempio, all'altrettanto duratura unione dei genitori di lei; una contrapposizione che si rende sommamente esplicita confrontando il bellissimo ballo che precede la morte di Marta con la tediosa e amorfa cena tra i suoi genitori, collocata a metà del film: la favola, tormentata ma sincera, da una parte, l'incomunicabilità grigia e ordinaria dall'altra.
L'amore trionfa, sconfigge anche il male e la favola può continuare per sempre. Tanto che non ci si è stancati di guardarla nemmeno a quasi settant’anni di distanza.
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