A beautiful mind PDF 
di Barbara Rossi   

Che si tratti di una bella mente è indubbio: ma qui, per il momento, non ci riferiamo a quella straordinaria e geniale dello scienziato John Forbes Nash Jr., il protagonista ispiratore dell'ultimo film di Ron Howard nonché dell'omonima biografia di Sylvia Nasar, ribattezzata in Italia "Il genio dei numeri" (Rizzoli); stiamo invece parlando di quella, alquanto singolare, dei membri dell'Academy Awards, che sull'onda dei quattro Golden Globes conquistati poco prima (per il miglior film, attore protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura per film drammatico) hanno premiato "A beautiful mind" con altri quattro premi Oscar nelle medesime categorie, sottraendo però l'ipotizzata statuetta a Russel Crowe (John Nash) a beneficio di Ron Howard, miglior regista.

E' una scelta curiosa questa (certo non l'ultima fra le molteplici, apparenti incongruenze della diabolica "macchina" hollywoodiana): se, infatti, la plurima consacrazione del film - secondo la prospettiva "politically correct" della giuria americana - è pienamente comprensibile (la pellicola è rigorosamente "made in Usa"; il regista, anche lui americano d.o.c., è la perfetta incarnazione del rigoroso mestierante di Hollywood, abile e creativo, ma certamente non un innovatore rispetto agli stilemi tipici dell'industria che lo ha forgiato; infine, anche la classica equazione dramma + divo + lieto fine = film di successo viene confermata), non lo è altrettanto la penalizzazione "in extremis" di Crowe, autentico perno, nucleo attorno al quale gira, non solo da un punto di vista strettamente drammaturgico, l'intera opera. Di questo attore/divo, esempio rarissimo a Hollywood, era da premiare ancora una volta l'interpretazione, intensa, sofferta ma calibrata al millimetro (come già lo scorso anno ne "Il gladiatore" di Scott e, nel 1999, in "Insider - dietro la verità" di Mann): una caratterizzazione anzitutto fisica (i passi strascicati, la goffaggine, gli sguardi lontani o aguzzi, le crisi visionarie di Nash), che poi diventa, nel dipanarsi della trama, il riflesso di una condizione cerebrale, un dolore esteriorizzato dell'anima. Il tutto con il pregio della naturalezza, senza esagerati istrionismi o autoimposti rigori da "Actor's Studio".
Efficaci anche gli altri interpreti, da Ed Harris (William Parcher) a Christopher Plummer (Dr. Rosen); matura e versatile, pur se non proprio da Oscar, Jennifer Connelly (irriconoscibile rispetto al 1985, quando il film Phenomena di Dario Argento la rese nota al pubblico italiano), nei panni di una Alicia Nash ricca di coraggio e di forza trattenuta.
Fascinose la scenografia e la fotografia (Wynn P. Thomas e Roger Deakins) nel restituire l'atmosfera che si respirava negli anni Cinquanta in uno dei campus più quotati d'America, Princeton, dove sono state ambientate effettivamente parti delle riprese.

Ron Howard si riqualifica abile narratore, sia dal punto di vista stilistico quanto da quello contenutistico: imprimendo ritmo e scorrevolezza ai suoi 136 minuti di film, collocando gli snodi drammatici al posto e al momento giusto, sfruttando il regime di focalizzazione interna per consentire allo spettatore di identificarsi totalmente con Nash e con la sua malattia mentale, si fa parzialmente perdonare una certa retorica argomentativa, che volutamente salta alcuni passaggi della vita del matematico (la presunta omosessualità, il divorzio dalla seconda moglie, poi risposata, un figlio "dimenticato") presenti invece nella biografia della Nasar, per correre verso un happy end un po' troppo agiografico.
La pellicola, pur nella rinuncia all'esplicazione delle intuizioni nashiane, ha comunque l'innegabile merito di aver dato visibilità e risonanza mondiali ad una mente meravigliosa, contraddittoria ma geniale, ad un premio Nobel la cui "Teoria dei giochi" ha rifondato l'economia occidentale, e che, purtroppo, senza l'ausilio del mezzo cinematografico, sarebbe rimasto sconosciuto ai più.

 


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