Nick Zedd PDF 
Eros Torre   

“Zed è morto piccola, Zed è morto”. Nella parte finale di Pulp Fiction Quentin Tarantino esprime, per bocca del pugile Butch (Bruce Willis), questo dubbio omaggio al regista Nick Zedd, una delle figure più singolari ed estreme del panorama cinematografico mondiale. Nato a Hyattsville in Maryland, a circa 50 Km da Baltimora (in un area evidentemente feconda di cineasti fuori di testa), Zedd è un tipico prodotto dell’emarginazione scolastica e sociale statunitense: “diverso” per sensibilità, interessi e attitudine rispetto alla maggior parte dei coetanei, e perciò spesso emarginato, ha accentuato gli aspetti sovversivi del proprio carattere fin dalla adolescenza, riuscendo a instaurare stabili relazioni sociali solo con altri giovani emarginati e ribelli. Cresciuto in una famiglia dalle profonde radici cattoliche e dai saldi valori morali (il padre si occupava di censura del materiale postale), Zedd ha vissuto sin dall’infanzia in una grave tensione dialettica tra norme e libertà, tra etica e trasgressione, che ne ha condizionato più o meno consapevolmente l’intero percorso artistico.

Nel 1976 recide finalmente il legame con le proprie origini e si trasferisce in una New York in grande fermento socio-culturale, nella quale incontra e frequenta numerose anime affini. È la New York del punk e della new wave, del CGBG, dei Ramones e dei Television, è, insomma, il centro culturale della contestazione giovanile, ancor più di Londra che, proprio a partire dallo spunto offerto dalla “nuova ondata” americana, riconquisterà a breve la guida del movimento (anti)culturale, sfruttandone appieno il potenziale economico. È opportuno sottolineare che il 1976 è anche l’anno in cui vedono la luce due capolavori del cinema americano, Rocky di John G. Avildsen (un altro indipendente di ferro, almeno fino a quel momento) e Taxi Driver di Martin Scorsese (ancora New York ), due film che inscenano, seppur in maniera profondamente diversa, il trionfo di due disperati underdog e, per estensione, la redenzione di tutti gli emarginati americani; due individui disturbati e dissociati alla ricerca di approvazione e accettazione all’interno di una società fratturata. Anche Zedd è un perdente senza speranza, che estende la propria visione artistica alla vita privata, una vita di eccessi e trasgressioni, sregolata e provocatoria. Un atteggiamento tipico dell’estetica punk nella quale egli si forma, ma attuato con una consapevolezza non comune e finalizzato ad un obiettivo poetico, se non finanche filosofico; in questo senso incarna un ideale romantico di adesione totale all’arte, che discende direttamente da Byron, Baudelaire e Wilde. Ma ciò che emerge in maniera più evidente dall’analisi del suo carattere e delle sue opere è un atteggiamento rigidamente anarchico e nichilista. Zedd conduce una incessante battaglia contro ogni forma di autorità (strutturata e non), ogni regola e ogni genere di valore etico/morale, e organizza una propria disorganica visione del mondo e un vero e proprio apparato teorico sulla valenza dell’atto trasgressivo.

Il termine “trasgressione” (parola chiave per comprendere l’universo zeddiano) appare per la prima volta associato al nome del regista già nel 1979, allorché Amy Taubin, critico del Village Voice, parla di “estetica della trasgressione” in riferimento a They Eat Scum (1979), opera prima in super 8 di Zedd, e conia l’espressione “transgressive films” per sottolineare non solo la natura oltraggiosa dei temi trattati, ma anche la provocatoria struttura narrativa e l’insolita rappresentazione formale della pellicola . Proprio partendo da questi presupposti Zedd inizia ad elaborare una autentica dottrina per un nuovo movimento cinematografico (“L’Altro Cinema” di cui parlava Amy Taubin) dalle pagine dell’“Underground Film Bulletin”, fanzine curata dallo stesso regista sotto lo pseudonimo di Orion Jeriko, ove convivono, in un’orgia postmoderna, Platone, Nietzsche e Duchamp accanto ai protagonisti della scena art-punk di New York. Nel quarto numero del “Bulletin” Zedd/Jeriko firma il Manifesto del Cinema della Trasgressione, atto di fondazione ufficiale del movimento e definitiva dichiarazione d’intenti (e, per certi versi, di guerra). Zedd porta a compimento lo strappo con tutta la tradizione cinematografica hollywoodiana e non risparmia neppure le avanguardie degli anni 60 alle quali, sotto alcuni aspetti, evidentemente si ispira. Nel Manifesto vengono messe definitivamente a fuoco le strategie d’azione e gli obiettivi da colpire: “All values must be challenged. Nothing is sacred. Everything must be questioned and reassessed in order to free our minds from the faith of tradition. [...] We propose to go beyond all limits set or prescribed by taste, morality or any other traditional value system shackling the minds of men. We pass beyond and go over boundaries of millimeters, screens and projectors to a state of expanded cinema. [...] We propose to break all the taboos of our age by sinning as much as possible. There will be blood, shame, pain and ecstasy, the likes of which no one has yet imagined. None shall emerge unscathed”.

Pur tenendo ben presente le evidenti differenze storiche, culturali e sociali, non si può fare a meno di notare le numerose analogie tra questo Manifesto e la Prima Dichiarazione del New American Cinema Group, realizzata da Jonas Mekas nel 1961 sul modello delle esperienze francesi: critica del cinema tradizionale, rifiuto della censura, affermazione dell’indipendenza artistica. Significativo inoltre l’esplicito riferimento di entrambi i documenti al sangue , elemento archetipico di quasi tutte le avanguardie cinematografiche secondo Amos Vogel . Proprio il New American Cinema, che Orion Jeriko attacca senza pietà nel Manifesto, sembra quindi fornire la principale piattaforma ideologica da cui prende vita il Cinema della Trasgressione. Zedd, al pari di Mekas, è il cuore pulsante del gruppo, è un instancabile teorico, un intrepido performer e un regista estremo.  They Eat Scum è considerato il primo film del nuovo movimento e compie un ulteriore salto in avanti rispetto alle opere del New Cinema o della No Wave Cinematografica newyorkese di quegli anni. Girato in Super 8 con una tecnica estremamente approssimativa (si legga ‘amatoriale’), su pellicola rubata alla scuola di cinema, il film rappresenta il prototipo e la sintesi di tutto il Cinema della Trasgressione, grazie ad una trama priva di logica e all’accumulazione di provocazioni visive e narrative; si inizia con il ritratto di una famiglia che sembra uscita direttamente da un film di John Waters: la protagonista Suzie Putrid, leader di un gruppo deathrock di cannibali rivoluzionari, il fratello, un travestito, che esordisce praticando una fellatio al suo barboncino, e il padre, pedante fondamentalista cristiano. Poi la narrazione perde di senso, procedendo per slanci irrazionali e temporali, e assistiamo all’intero campionario di perversioni zeddiane. Non manca davvero nulla: un crescendo di blasfemia, cannibalismo, incesto, sventramenti, torture, omicidi, castrazioni, stupri, fino all’imprevedibile e assurdo finale che comprende un olocausto nucleare e una rivolta di mutanti che attaccano al suono di YMCA dei Village People. Il tutto condito da ampie dosi di humour nerissimo e da effetti speciali di un dilettantismo assoluto.

Uno Z-movie, insomma, se non fosse strettamente inserito in ampio apparato teorico e se non celasse una profonda critica alla società americana. Critica spietata della famiglia, della religione, dei media (il telepredicatore assillante), della politica nucleare statunitense e del potere tout court., senza mediazioni e senza attenuanti. Non c’è possibilità di redenzione o catarsi né speranza nel futuro (del resto non è stato proprio “No future” il primo slogan punk lanciato dai Sex Pistols?). Zedd attacca tutto e tutti e incita alla rivoluzione, alla trasgressione, alla violenza. They Eat Scum rappresenta per il Cinema della Trasgressione il primo passo verso la dannazione, il guanto di sfida gettato in faccia alla società americana del Reaganismo e, lungi dall’essere l’opera migliore del regista, costituisce una testimonianza di importanza capitale, poiché presenta in nuce l’intero spettro di ossessioni e aspirazioni che verranno esplicitate nelle opere posteriori.

La definitiva condanna di autorità politica e militare è completata con il secondo film The Bogus Man (1980) e con Police State (1987), due cortometraggi che mettono alla berlina rispettivamente il presidente degli Usa e la polizia di New York. The Bogus Man, esteticamente ancor più povero, se possibile, del film precedente, è ancora legato ad un tipo di narrazione incoerente e si conclude con una spietata parodia del presidente che, trasformatosi in una grassa e innaturale donna nuda (con un inspiegabile cambio di identità che anticipa il Lynch di Strade Perdute), danza in maniera oscena davanti alla bandiera americana, il più sacro dei simboli nazionali. Police State, probabilmente l’opera più celebre e apprezzata è in realtà una testimonianza atipica dello stile del regista, almeno dal punto di vista visivo, a causa di una struttura narrativa quasi accademica e di un bianco e nero dolente e pallido, deliberatamente poco espressivo. Tuttavia è l’opera che più compiutamente, e drammaticamente, “mette in crisi” i concetti di autorità, classismo e libertà attraverso una climax di violenza psicologica e abuso fisico che culmina nell’esplosione finale, che riconduce la narrazione al momento iniziale, ma che aleggia minacciosa sulla coscienza collettiva e, nel sottotesto, sull’intera filosofia del regista. È un’opera atipica, si diceva, poiché sinceramente drammatica; manca l’elemento grottesco presente in tutte le altre pellicole (ad eccezione di The Wild World Of Lydia Lunch, che infatti scaturisce da una situazione contingente ed è un film profondamente impulsivo e personale), manca l’ironia e, paradossalmente, manca l’elemento scioccante, o meglio, ciò che sciocca è proprio l’immotivata violenza della polizia newyorchese. Soltanto la recitazione resta sopra le righe, ma in questa occasione l’accentuazione dei caratteri non nuoce all’espressività complessiva del cortometraggio, senza dubbio uno dei più accessibili ad un vasto pubblico.

Nel 1983 Zedd termina il suo secondo lungometraggio, Geek Maggot Bingo, una parodia del genere horror non particolarmente brillante in verità, ma nel quale riesce per la prima volta a dare libero sfogo al suo talento visionario. Fin dai titoli di testa, davvero splendidi, assistiamo ad un’enciclopedia del cinema low cost, un tripudio di invenzioni visive ed effetti speciali casalinghi, scenografie bidimensionali disegnate dallo stesso Zedd sul modello delle rappresentazioni teatrali (e de Il Gabinetto del Dottor Caligari di Wiene), mostri di gomma mossi da fili, maschere e trucchi carnevaleschi, arti amputati e litri di sangue finto. Una riflessione sulla falsità del cinema, spinta all’eccesso in un contesto teatrale. Richiami evidenti al Rocky Horror Picture Show, ma anche citazioni di Warhol, Waters, Romero e, soprattutto Gordon Lewis, l’inventore del gore, evidenziano la direzione artistica intrapresa da Zedd, chiaramente orientata ai margini del sistema; scelta accentuata dalla presenza di una burlesca scena hardcore tra “freak”, la prima volta a luci rosse del regista, che in seguito non esiterà ad usare la pornografia quale arma contro il conformismo. La regia è decisamente più evoluta rispetto agli esordi, così come appaiono più curati gli aspetti tecnici e fotografici, ma è il contesto a brillare per anarchia e follia. Sembra un film di Tim Burton realizzato in una discarica (o in un manicomio) ed è senz’altro il film più divertente di Zedd, anche se segna un chiaro passo indietro per ciò che concerne l’attuazione della rivoluzione da parte del movimento. Dello stesso anno il già citato The Wild World Of Lydia Lunch, ovvero ‘I dolori del giovane Zedd’, uno struggente e poetico ritratto della fine di un amore, quello tra il regista e la “selvaggia” performer Lydia Lunch, celebre artista New Wave e anima del Cinema della Trasgressione insieme allo stesso Zedd e a Richard Kern. Zedd si mostra capace di un inimmaginabile lirismo sia visivo che narrativo ed esibisce il suo lato più “oscuro” e privato. L’effetto straniante è completato dalla visione di Lydia Lunch in versione girl next door ben lontana dagli eccessi artistici e dalle esibizioni trasgressive abituali.

L’atmosfera privata del film richiama e sottolinea l’attitudine amatoriale (da un punto di vista tecnico) del movimento e al contempo rafforza l’impatto melanconico dell’opera. Zedd si muove agevolmente tra i generi e gli stili; They Eat Scum, The Wild World Of Lydia Lunch, Geek Maggot Bingo e Police State sono visivamente molto dissimili l’uno dall’altro e stilisticamente ben differenziati, tuttavia posseggono una sfumatura comune che li caratterizza con uno stesso tragico marchio, quello della rabbia disperata e assordante di un artista in lotta con il mondo.

Finito il travagliato sodalizio con Lydia Lunch, Zedd trova conforto in Richard Kern, con il quale si trova in perfetta identità di vedute e col quale condivide la leadership del movimento. Kern, talento visionario purissimo (non a caso diventerà un affermato fotografo) è autore delle opere più celebri e, probabilmente, migliori in senso assoluto, del Cinema della Trasgressione, ma manca della coerenza ideologica di Zedd ed è, in prospettiva storica, meno significativo proprio per questo motivo. Scrive Bruno Di Marino: “Il merito di Richard Kern è quello di non prendersi troppo sul serio” , ma se ciò può costituire una virtù in ottica cinematografica (e a maggior ragione in ambito sperimentale) non rappresenta certo un vanto da un punto di vista concettuale. La prima collaborazione, una regia a quattro mani, produce un capolavoro intenso, drammatico e altamente provocatorio, Thrust In Me, terzo episodio di una quadrilogia grottesca sui suicidi d’amore, per il resto interamente diretta da Kern, intitolata Manhattan Love Suicides. Zedd dimezza il lavoro alla regia, ma si fa in due davanti alla macchina da presa; impersona, difatti, entrambi i protagonisti, un uomo e una donna, con commovente credibilità, fornendo la migliore interpretazione della carriera. In pochi minuti Kern e Zedd portano al limite estremo (in tutti i sensi) il Cinema della Trasgressione, in un crescendo di immagini scioccanti e estremamente disturbanti. Una giovane donna senza più speranze decide di togliersi la vita. Strappa da un libro un immagine di Cristo e la appende sulla parete del bagno di fronte alla vasca. Si immerge nella vasca. Si taglia le vene. Pausa. Un uomo, il compagno della ragazza, entra in casa. Va nella stanza da bagno. Si siede sul gabinetto. Trascura con ostinata indifferenza la donna morta. Usa l’immagine di Cristo in luogo della carta igienica. Sembra rendersi conto della tragedia. Osserva con attenzione la donna morta. Estrae il proprio membro e lo infila in bocca al cadavere della donna (in realtà lo stesso Zedd, in un apoteosi di conflittualità psicanalitica). Viene in maniera ridondante e paradossale sul volto della donna. Chiusura con ripresa aerea di Manhattan e l’uomo immobile sul tetto di un palazzo. Titoli di coda. Questo è il mondo secondo i due artisti. Non c’è altro da aggiungere. Questo è Zedd, in grado di passare senza esitazioni dalla poesia di The Wild World Of Lydia Lunch al porno, dalla furia barocca di Geek Maggot Bingo al minimalismo di Police State. Questo è il Cinema della Trasgressione al suo massimo, tragico splendore. La morte dell’amore e l’amore per la morte segnano il declino e la fine della società. E del cinema. Thrust In Me dimostra una volta per tutte, se mai ce ne fosse bisogno, che Zedd (e in misura minore, per i motivi che abbiamo visto, Kern) non cerca l’approvazione né il dialogo, ma intende affermare, anzi urlare il suo punto di vista con disarmante sincerità. Egli è in grado di vedere il volto (iper)reale della società con occhi spietati, beffardi e al contempo ingenui, ma, come il buffone di corte o il bambino tra la folla, è il solo ad avere il coraggio di urlare la sua verità in faccia al re nudo.

Ancora morte. Ancora amore. In Kiss Me Goodbye e Go To Hell, due corti del 1986, il regista prosegue nell’autoanalisi delle sue personali ossessioni. Nel primo Zedd bacia appassionatamente una ragazza poco prima di ucciderla soffocandola. Nel secondo, in un affascinante narrazione circolare, lo stesso Zedd risveglia con un bacio una ragazza uccisa da un giovane teppista: una rivisitazione postmoderna delle fiabe classiche in una atmosfera urbana da incubo. Kiss Me Goodbye cita apertamente Kiss di Andy Warhol e indirettamente le opere di Jack Smith e Maya Deren e riesce a raggiungere una perfetta tensione tra erotismo e angoscia. Anche la tecnica registica è decisamente superiore rispetto agli esordi, per quanto resti comunque sporca e inusuale, e più consapevole delle corrispondenze stilistiche. Lo stesso Go To Hell appare più fluido e lineare dei film precedenti, sebbene la narrazione tenda sempre ad un simbolismo esasperato e ad un rimbalzo di significati non esplicitati, caratteristica, questa, tipica delle avanguardie cinematografiche. È significativo, a mio avviso, sottolineare l’utilizzo alternato di materialismo (materia intesa anche, e soprattutto, come scoria, rifiuto), astrattismo e allegoria che accentua l’estraniazione e lo smarrimento derivanti dalla visione di queste opere. Go To Hell è un film in equilibrio, instabile. Di più, è un film sull’equilibrio o, meglio ancora, sul conflitto. Equilibrio/conflitto tra vita e morte. Equilibrio/conflitto tra amore e violenza, ancora una volta. Equilibrio/conflitto tra individuo e società. Equilibrio/conflitto tra uomo e città. Per una volta Zedd sembra prospettare, con la resurrezione finale, la possibilità di una catarsi, di un nuovo inizio, ma nessuna “nuova vita” o “nuovo mondo” è in realtà possibile nell’inferno (Hell, appunto) della società (americana) contemporanea in cui la ragazza si trova costretta a rivivere, come testimonia tutta la prima parte del corto. In questo senso la narrazione circolare suggerisce una chiara presa di posizione del regista: la storia (la Storia) come eterno ritorno determina l’ineluttabilità del peccare umano; un inferno verso il quale si è disperatamente diretti o attratti e dal quale non è possibile fuggire, se non proprio attraverso la trasgressione.

 Dopo Police State, cortometraggio stilisticamente minimale e tematicamente lineare del quale abbiamo già parlato in precedenza, Zedd si dedica a due opere che riescono ancora una volta a spiazzare lo spettatore. Proprio in questa abilità di presentarsi dove non lo si aspetta si può cogliere la profonda consapevolezza dell’artista americano. Si tratta di due film fondamentali nell’evoluzione dell’estetica della trasgressione e imprescindibili per comprendere appieno la filosofia del regista. Whoregasm, corto del 1988, è un delirante esperimento visivo a carattere pornografico, che riprende gli studi sull’immagine di Stan Brakhage. Montaggio serrato, immagini polarizzate, sovrapposte, fotogrammi slegati che irrompono come schegge impazzite. Due temi di fondo, le ossessioni di Zedd e della società postmoderna: l’amore (in questo caso il sesso) e la violenza. Esplicite scene hardcore, alcune delle quali, naturalmente, interpretate dallo stesso Zedd, alternate a sequenze tratte da film precedenti, in particolare Police State. Ad aprire e chiudere il film l’immagine di un grande occhio spalancato, metafora di tutto il Cinema della Trasgressione. Significativamente un occhio spalancato è riproposto anche alla fine di War Is Menstrual Envy (1992), terzo ed ultimo lungometraggio di Zedd e senza dubbio l’opera più ambiziosa ed ermetica dell’artista; si tratta di un occhio sottoposto ad un intervento chirurgico, forzatamente e meccanicamente tenuto aperto. È l’occhio dello spettatore costretto a sopportare le visionarie follie di un cinema rivoluzionario e violento. È l’obiettivo principale del cinema di Zedd ed è, al contempo, il complice indispensabile dell’atto trasgressivo perpetrato nella/dalla macchina da presa.

Già in The Bogus Man, del resto, la voce narrante ripeteva ossessivamente: "Why did my eyes have to see this, why?” (“Perchè i miei occhi devono sopportare tutto questo, perchè?”), prova ulteriore di una volontaria strategia terroristica e di una consapevolezza teleologica fuori dal comune. A questo proposito osserva Antonio Tedesco: “Se qualcuno ha pensato che il caos, la confusione, il disordine apparente in cui il film si dibatte non gli appartengano, provveda subito a rimuovere dalle proprie pupille il velo che impedisce di avere una chiara visione delle cose. La storia del mondo e la storia del cinema, secondo Zedd, sono solo storie dell’occhio” . E War Is Menstrual Envy mette a dura prova l’occhio sin dai primi minuti. Progettato per una proiezione su schermi multipli (come pure il film precedente, del resto), prosegue e porta alle estreme conseguenze le sperimentazioni figurative di Whoregasm. La trama inconsistente costituisce un pretesto per sfogare gli istinti e le fantasie perverse del regista, che, ormai emancipatosi dal movimento da lui stesso fondato, non nasconde più l’ammirazione verso i suoi modelli, su tutti, in questa occasione, Kenneth Anger e Jack Smith.

E proprio Jack Smith riemerge esplicitamente dai fotogrammi di Ecstasy In Entropy (1999), senz’altro il miglior lavoro dell’età adulta di Zedd, una versione aggiornata del leggendario Flaming Creatures (1963), film tra i più censurati della storia. Un bianco e nero strepitoso, una fotografia minuziosamente curata e, finalmente, una regia matura e attenta costituiscono una nuova innovazione e sembrano segnare il passaggio verso una nuova fase stilistica, che in realtà sarà confermata unicamente dai corti I of K9 (Imitation of Kiss) e Thus Spake Zarathustra, entrambi del 2001, e abbandonata in favore di alcune opere caleidoscopiche e della serie televisiva (via cavo) Electra Elf, che impegnerà Zedd negli anni seguenti e della quale non ci si occupa in questa sede poichè esula visibilmente dalla filosofia cinematografica di Zedd. Ancora una volta una pornografia parodizzata ed esasperata, al servizio di una trama sconnessa: un gruppo di lottatrici e spogliarelliste che vuole scatenare una rivoluzione marxista. Se da un lato si avverte la mancanza di sequenze realmente trasgressive e scioccanti, ormai relegate alle mere esibizioni sessuali, non si può non ammirare l’illustrazione drammatica degli atti umani e la vocazione espressionista dell’opera. È un film di ombre che racconta le ombre, le curve dell’anima, i lati oscuri, i fantasmi e i reietti della società. È un film che celebra l’immaterialità (l’ombra, appunto) dell’esistenza e delle ambizioni umane in un contesto di brutale materialismo (sesso e denaro), richiamato dalla pervasiva presenza di elementi terribilmente concreti quali sangue, alcol, fango e, emblematicamente, liquidi organici, che fuggono dall’uomo spogliandolo della materialità più volgare ed elevandolo a pura essenza spirituale. Ma Zedd è troppo scaltro per rischiare di mettere in crisi la sua ideologia con un’opera completamente poetica e spirituale e, con un colpo di genio finale, capovolge la prospettiva nella farsesca coda (a colori, quindi in aperta dissonanza già a livello percettivo), che si apre con un primissimo piano della copertina di una rivista che domanda a caratteri cubitali “IS GOD DEAD?”, tenuta in mano da una grassa e prosperosa donna vestita di rosso (citazione, presumibilmente, della Divine di Pink Flamingos di John Waters, la Divina che, proprio in quelle vesti, uccideva Dio e gli uomini). La sequenza si conclude con una divertente lotta tra costei, ormai nuda, e un uomo in abiti fetish, che soccombe rapidamente sotto i colpi della donna. Un’orgia di indizi simbolici e rimandi metatestuali che compromettono la comprensione e la classificazione del film: la messa in discussione del (materialismo e) nichilismo di Nietzsche nel titolo del giornale, sembrano incrinare le convinzioni dell’autore e confermare lo spiritualismo di Ecstasy In Entropy, tuttavia la presenza dei due personaggi ribalta questa sensazione. Si tratta infatti di due individui profondamente “materiali”. La donna riempie lo schermo con la sua debordante fisicità (il corpo come materia archetipica; carne e sangue, il cinema di Zedd), che viene impiegata contro l’aggressore, un feticista, ossessionato per definizione dalla tangibilità dei feticci, simulacri corporei di desideri e ossessioni.

Sostanza del cinema

Il Cinema della Trasgressione nasce, muore e risorge nel segno della materialità. Come promesso ci sono il sangue, la vergogna, il dolore e l’estasi, elementi che Zedd sperimenta su se stesso fino in fondo e senza tentennamenti. Difatti egli, a differenza, ad esempio, di Kern o Waters, non fa alcuna concessione al mainstream, non cerca in nessun modo il successo e non arretra di un passo rispetto alle posizioni degli esordi. Non perde occasione per esprimere il proprio totale dissenso verso Hollywood (“Sono disgustato e nauseato da tutti coloro che fanno parte dell’industria cinematografica” ), verso le ricche produzioni “indipendenti” (“Sono prodotti commerciali realizzati con budget ultramilionari [...] indistinguibili dalle produzioni hollywoodiane tradizionali ”) e verso l’autocensura del sistema (“I sistemi di distribuzione instaurati da decenni emarginano e soffocano qualsiasi idea radicale e provocatoria, castrando così il potere del cinema come arte sovversiva ”). Si avverte chiaramente la frustrazione di un artista costretto ad autofinanziare ogni progetto per esprimere la propria visione del mondo e a lavorare realmente a costo zero, utilizzando attori non professionisti ed elemosinando frammenti di pellicola per contenere le spese. Difatti Zedd esaspera l’emergenza espressiva propria degli artisti incompresi ed incarna l’esigenza autoriale dell’underground cinematografico, all’interno del quale assume validità univoca e virtuosa il termine filmmaker. L’idea, la produzione, la realizzazione e la distribuzione sono parti dello stesso processo creativo, integralmente autonomo e totalmente svincolato da ogni forma di controllo intellettuale o economico. Se si assume come valida questa linea di pensiero non si può tornare indietro. L’assoluta libertà espressiva nella quale opera, eleva Zedd (e in generale ogni regista sotterraneo) al rango di Autore e rende davvero nobile l’arte della regia che, etimologicamente si ricollega proprio al concetto di governo e supervisione assoluti. Se proviamo per un istante a considerare l’immensa mole di prodotti orrendi, banali e inutili che produce annualmente l’industria hollywoodiana, possiamo comprendere i motivi che hanno portato a valutare il cinema come puro intrattenimento e le ragioni che hanno determinato la completa marginalizzazione di opere dall’elevato rilievo culturale e dall’immenso potenziale sovversivo. La substantia del cinema di Zedd ha l’essenza monadica delle grandi avanguardie artistiche del Novecento. Nasce dalla rabbia, dalla frustrazione e dal rifiuto, si manifesta con violenza ed aggressività e si dissolve in se stessa senza riuscire in qualche modo a risolvere il conflitto e le contraddizioni intrinseci. È substantia (immateriale) in un cinema di sostanza (materiale).

Forma del cinema

Da un punto di vista formale sono evidenti le influenze di Kenneth Anger (esotismo, uso della musica e montaggio), Jack Smith (illustrazione ed esibizione della sessualità), Andy Warhol (filosofia del cinema e sperimentalismo tecnico), George e Mike Kuchar (parodia e mortificazione di Hollywood) e John Waters (ricerca dello shock e anarchismo ideologico), così come evidenti appaiono i frequenti riferimenti ai film horror e fantascientifici degli anni Cinquanta, ai film gore degli anni Sessanta, alla No Wave e alla video arte degli anni Ottanta. Malgrado tali omaggi, tuttavia, la riflessione zeddiana procede chiaramente in senso anticinematografico. Pressoché nulle le concessioni estetiche, scenografie bidimensionali (se non, addirittura, assenti e palesemente artefatte), interventi diretti sulla pellicola; Zedd non si preoccupa di celare la finzione/falsità della messa in scena e, richiamandosi proprio agli strutturalisti tanto criticati nel Manifesto e ai primi film di Warhol, si diverte nello svelare la natura illusoria e irreale del cinema. In questo senso fa di necessità virtù, ostentando la povertà di mezzi a disposizione alfine di conseguire un duplice obiettivo: costruire un cinema sporco e angosciante, affermando una sorta di stile, e mettere l’estetica al servizio dell’opera, capovolgendo l’ottica artistica tradizionale. La forma si adegua alla sostanza e si può dire, estremizzando il concetto, che non vi sia una ricerca estetica, almeno secondo l’ottica con cui tale espressione viene comunemente intesa. Zedd rigetta ogni tecnicismo e virtuosismo, ancora una volta in decisa controtendenza rispetto ai canoni hollywoodiani della sua epoca. La macchina da presa è letteralmente, per una volta almeno, estensione del braccio e dell’occhio del regista e non si sottopone, quindi, ad alcuna regola né ad alcuna logica prestabilita. Esplora lo spazio e manipola il tempo con la stessa violenza con la quale ci costringe a tenere gli occhi aperti dinanzi al suo operato e con la quale viola le nostre coscienze.

In definitiva è, quello di Zedd, un cinema dinanzi al quale non si può rimanere indifferenti. Non è assolutamente entertainment. È un cinema di guerra. È un cinema anarchico ed al contempo ideologico. Ma è soprattutto un cinema puro, talvolta ingenuo, ma terribilmente sincero. Ed è puro cinema, molto più di tanto celebrato cinema alto, seppur in forme (8 mm), linguaggi e contenuti antitetici al concetto stesso di cinema. Non si può fare finta di nulla, dicevamo. Eppure Zedd continua ad agitarsi nell’ombra (sempre più deluso e spossato) ai margini del sistema o, volendo, sottoterra. L’industria cinematografica sembra avere vinto anche questa battaglia. Stiamo parlando, in fondo, di un’artista pressoché sconosciuto al grande pubblico e colpevolmente trascurato da una ottusa critica, che preferisce rovesciare litri di inchiostro su manifestazioni vetuste, inutili e autotrofe, piuttosto che tentare di approfondire le potenzialità sovversive, e quindi genuinamente artistiche, del cinema.

- “What advantages do you see to making films without relying on backing from others?
- “The obvious ones. Integrity of personal vision uncompromised by capitalist values. A preference for truth might be made manifest in such a situation. Such lofty and idealistic advantages are rarely realized in the real world. Real artists are ignored demonized and impoverished for the most part.

 


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