Non vedono, non sentono e non parlano. Non intrattengono rapporti di alcun genere con il mondo esterno, non comunicano o esternano quel che sentono nel profondo, quel che i loro occhi hanno visto e non avrebbero dovuto vedere.
Le tre scimmie della favoletta, quelle delle immagini un pò cartonesche che ammiccano e generano un’istintiva simpatia, vengono trasposte, impresse, sulla pellicola da Ceylan, che ne costruisce un’immagine post-moderna e allo stesso tempo antichissima. Un affresco a tinte cupe, che si tratteggia sulla tela di una Turchia nella quale si intrecciano trame dell’età contemporanea con venature di un mondo arcaico, dai tratti tribali. Le tre scimmie di Ceylan sono una madre, un padre, un figlio. Tutti e tre appesi al filo invisibile di una stabordante incomunicabilità, che fatica a rimanere entro i precisi confini imposti da una morale deviata e disturbante, finendo così per sconfinare in gesti inconsulti e irreversibili. Il film si costruisce e si sostiene interamente su una regia non a caso premiata come la migliore all’ultimo Festival di Cannes. Una storia che confluisce e si rigenera in lunghi momenti di silenzio, in dialoghi appena abbozzati. Il cuore vivo e pulsante della pellicola lo si può rintracciare nella sapiente gestione di una macchina da presa che sta addosso alle cose, che tratta gli oggetti per quel che sono, senza velleità metaforiche, e attraverso cui emerge un quotidiano concreto, tangibile, senza il quale tutta l’architettura filmica sarebbe venuta a crollare. Tre attori di una certa bravura si alternano nel favoloso gioco delle parti della vita. Tutto è così maledettamente vero, tanto quanto la finzione entra prepotentemente in scena ad ogni piè sospinto. Il film narra di un episodio, affronta un breve tratto della vita di una famiglia ben inserita nel reale, contestualizzata nella Turchia odierna, che entra con forza nello schermo attraverso la musica, il frastagliato panorama, le incombenti elezioni il cui dominus è, come da un pò di tempo a questa parte, Erdogan. Ma parla anche del lento disgregarsi del nucleo familiare di fronte ad una società che si fa sempre più invadente, che trascura e tritura l’essenziale necessità di quella che è da millenni la prima forma di comunità: la famiglia. Lo fa attraverso la figura dell’imprenditore e politico che non esita a servirsi prima del padre e poi della madre, blandendoli l’uno con la prospettiva di riconoscimento e denaro, l’altra con il sesso. Una disgregazione che parte da lontano, nella quale anche il figlio è coinvolto in prima persona, che mina alla radice il vincolo naturale e biologico che è humus indispensabile per ogni comunità. Una pellicola in qualche modo conservatrice, ma al tempo stesso pragmatica, disillusa nel rappresentare il trionfo di un nuovo che avanza e che, almeno in apparenza, non si può fermare. Un film stratificato, denso, con qualche difficoltà sul piano dell’unità e della coerenza narrativa, ma sostenuto da una regia veramente notevole. Un film per ragionar, piangere, pregare. TITOLO ORIGINALE: Üç Maymun; REGIA: Nuri Bilge Ceylan; SCENEGGIATURA: Nuri Bilge Ceylan, Ercan Kesal, Ebru Ceylan; FOTOGRAFIA: Gökhan Tiryaki; MONTAGGIO: Nuri Bilge Ceylan, Bora Göksingöl; PRODUZIONE: Francia/Italia/Turchia; ANNO: 2008; DURATA: 109 min.
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