Occhi di serpente, ovvero il cinema come esperienza limite PDF 
Carmelo Caramagno   

Con Snake EyesDangerous Game (Occhi di serpente, 1993) Abel Ferrara si distacca dai propositi dei film precedenti, in cui aveva lavorato all’interno del “genere” solo per fare passare in modo indolore la sua idea di cinema: King of New York (1991) e Il cattivo tenente (1992) si servono delle cornici prefabbricate del gangster-movie e del film poliziesco attraverso cui lasciano uscire il loro messaggio disturbante. Scritto col fido collaboratore Nicholas St. John , rimanendo fuori da qualsiasi schema, il regista newyorkese concepisce qui un progetto di radicalità totale, in cui il cinema è vissuto come esperienza limite, come messa in gioco estrema, non solo dei materiali possibili della messa in scena ma anche della stessa esistenza dell’autore. Si potrebbe essere tentati di inquadrarlo come un film che parla di cinema, poiché ne evoca alcuni caratteri fondamentali, attribuendogli quindi un livello “metacinematografico” o “metafilmico” – visto che c’è un altro film che si sta realizzando al suo interno – e inserirlo in un ricco elenco che va da Effetto notte di Truffaut a 8 e mezzo di Fellini, passando per La finestra sul cortile di Hitchcock. Sarebbe però una lettura troppo semplicistica e riduttiva a mio avviso.

Occhi di serpente non sembra appartenere né all’una né all’altra categoria o forse le comprende tutte e due, ma è sicuramente qualcosa di più “rischioso”. Ha un senso profondo che va oltre la dialettica tra il film contenuto e il film contenente: il continuo rispecchiarsi e confondersi del dramma dentro e fuori dallo schermo porta nei personaggi qualcosa di malsano, un inconscio voler fare e farsi male, affermando con nettezza la sintonia tra la vita su un set e la discesa all’inferno. Queste idee mi sembrano aprire la strada a un percorso di analisi incentrato sul gioco di specchi tra la realtà e la finzione che, come vedremo, s’avvita su sé stesso in modo tragico. Nell’interpretazione cercherò di focalizzarmi, seguendo la pratica di smontaggio e destrutturazione dei sensi proposta da Jacques Derrida in opere come Della grammatologia e Margini della filosofia , sui passaggi di maggiore pregnanza, su quelli che Paolo Bertetto in un suo saggio chiama “punti di vibrazione”, cioè quei luoghi del testo in cui il senso è meno chiaro, più problematico e forse più interessante, in cui è attiva una componente di autoanalisi del testo stesso, che insieme esibisce e nasconde il proprio senso.

Cominciamo col guardare alle modalità di costruzione testuale. La struttura del film si snoda attraverso quattro percorsi narrativi distinti e variamente intrecciati. Il primo fa riferimento alla vita del protagonista, il regista Eddie Israel, che sta realizzando un film sul drammatico fallimento del rapporto di una giovane coppia dell’alta borghesia newyorkese, divisa a causa delle aspirazioni mistiche di lei che intende rinnegare la vita dissoluta condotta a lungo insieme al marito. Con il secondo livello assistiamo a un cambiamento del punto di vista all’interno della narrazione, dove le immagini video del monitor usato durante le prove del film assumono un ruolo determinante, oltre che per il mutamento di focalizzazione diegetica, in cui ci troviamo di fronte a una sorta di grado zero dello sguardo (le immagini non hanno cioè nessuna correlazione con un personaggio), soprattutto per le significazioni molteplici e latenti che riescono ad attivare: sono in prevalenza primissimi piani del regista, che riflette sui suoi intenti e sullo sviluppo del suo lavoro, producendosi talvolta in considerazioni amare e autoconfessioni, e dell’attrice Sarah Jennings, vista anche lei in funzione dialogico-riflessiva. Il terzo percorso assume uguale importanza nell’ordine della significazione: la vita del set è resa con la macchina a mano in movimento, utilizzata in lunghi piani-sequenza spesso instabili, sporchi, sottoesposti. La lavorazione procede coinvolgendo tutta la troupe, i tecnici, le attrezzature utilizzate di volta in volta, gli impianti e gli spazi per le riprese attraversati dalla figura ingombrante di Eddie. Infine l’ultimo blocco comprende proprio il film che si sta girando, intitolato [i]La madre degli specchi[/i]: immagini dense, movimenti di macchina calibrati, illuminazione espressiva, montaggio lineare, soluzioni a effetto impiegate per rendere il dramma devastante di un conflitto di coppia.

Subito dopo la sequenza d’apertura di Occhi di serpente, in cui vediamo il regista a cena con la sua famiglia in una situazione di tranquillità domestica prima di partire per le riprese del film a Los Angeles, e i titoli di testa, il cui sonoro è affidato a un “simpatico” siparietto tra Eddie e un membro della troupe che per festeggiare l’inizio delle riprese cantano Blue Moon – una “pallida luna” che segnerà emblematicamente l’atmosfera di tutto il film, ritornando nei titoli di coda – ci troviamo di fronte alle immagini video del monitor, in cui Eddie spiega la storia del film che vuole realizzare. Non è un caso che il titolo sia [i]La madre degli specchi[/i] e che sia incentrato sul tema della colpa e del tradimento. Da questo punto in poi entriamo infatti in un’universo ambiguo, sia dentro che fuori il set e sia dentro che fuori la vita dei personaggi, un universo che sembra dominare e assorbire gli altri livelli narrativi, tra i quali si innesca una sorta di cortocircuito in cui si sovrappongono e si coniugano drammaticamente, producendo così una inedita e insieme lacerante configurazione del rapporto realtà-rappresentazione.

Le parti interpretate dai due attori per lo schermo si rispecchiano e giungono man mano a confondersi con i ruoli assunti nella realtà. Francis e Sarah si odiano e si desiderano, lui la maltratta e lei si fa consolare dal regista. C’è poi il dissidio tra quest’ultimo e sua moglie da una parte, e quello tra i due attori dall’altra; la controversia è di natura morale ed è impossibile uscirne: la moglie invita il regista ad insegnare al figlio a mentire, se lui ritiene che sia giusto farlo, e nello stesso tempo Sarah invita Francis a farle del male, prima per guadagnare potere su di lui e poi per rendere evidente l’abisso che li separa. Il film che Keitel sta girando innesca delle spirali sadomasochistiche che arrivano fino al punto di estrema incandescenza in una scena chiave, quella dello stupro non simulato da parte di Francis ai danni di Sarah, che merita di essere analizzata nel dettaglio. La scena si apre con Eddie che dà delle indicazioni precise all’attore riguardo l’atteggiamento violento che dovrà assumere. Dopo qualche minuto viene data l’azione. Claire/Sarah sta fasciando la mano ferita del marito Russell/Francis, quando ad un tratto lui le dice di baciarla. Lei lo guarda. Bacia la mano delicatamente ma lui in maniera sempre più energica le dice di continuare. Vuole possederla. Lei non vuole. Cerca di respingerlo ma lui la scaraventa a terra e la violenta. Questa è la sinossi della scena scritta sul copione, ma il dato sconcertante è che tutto questo avviene “realmente” tra i due personaggi nel set. La troupe è ammutolita. Eddie continua a dare delle indicazioni che ormai non hanno più senso: persino lo stop finale non conclude affatto la scena, che a questo punto sembra non avere una fine, né un’inizio.

Questi dati ci portano a riflettere sulle dinamiche di sguardo attivate. Il voyeurismo del regista, che rimanda inevitabilmente a quello dello spettatore, è connesso da un lato al sadismo (secondo le interpretazioni di L. Mulvey che si rifà alla fase edipica del soggetto freudiana), ma dall’altro anche al masochismo (in base alle teorie di un’altra esponente della Feminist Film Theory, G. Studlar , che si rifà invece alla fase pre-edipica del soggetto e agli studi fatti da Deleuze su Sacher Masoch). Questi meccanismi inconsci del volere e del volersi fare male, di cui abbiamo già parlato, si riversano sullo spettatore, il quale inoltre, essendo separato da ciò che vede, cioè in una relazione di subalternità rispetto alle immagini, viene obbligato in quel momento preciso a creare un legame tra soggetto e oggetto dello sguardo: in questo senso la scena è perfettamente simmetrica al piano dell’occhio tagliato di [i]A chien andalou[/i] di Bunuel, ed è così che infine bisogna leggerla. Per di più Eddie Israel e il suo doppio Francis Burns non sono capaci di recitare: chiusi nel loro nichilismo delirante e autodistruttivo, sono ciò che devono essere: questa è la loro tragedia. Lo sfasamento realtà/finzione prosegue nella sequenza-confessione di Madonna, che concluderà in maniera tragica il film La madre degli specchi.

L’attrice è solo il tramite di un concetto esteso di dannazione e redenzione impossibile. Il marito non vuole comprendere nè accettare il suo cambiamento e lei morirà per questo. Lo sfinimento dei protagonisti rispecchia quello di chi oscilla tra la volontà di peccare e quella di salvarsi dal peccato stesso. Non c’è redenzione per chi non conosce la propria volontà di peccare e quindi Francis ucciderà Sarah e attraverso lei la sua possibilità di redenzione. La sequenza si articola attraverso un piano ravvicinato di Sarah, che “recita” le sue battute guardando Eddie, posizionato dietro il profilmico ma a fianco della Mdp. Il regista instaura con lei un dialogo che si fa sempre più teso, mischiando la vita della protagonista con quella dell’attrice. Come dicevamo prima, i ruoli degli attori sul set si confondono con quelli assunti nella realtà, ma in questo caso si cerca di andare oltre il limite. Si assiste a una sorta di parabola sul mestiere dell’attore, a una “mise en abyme” del Paradosso di Diderot e a una riflessione sul metodo di Stanislavskij: Sarah Jennings deve recitare o sentire? Deve entrare nel personaggio o rimanerne distaccata? Ed è il regista stesso che, usando l’attrice come cavia da laboratorio, vuole da un lato trasferire sotto la pelle degli interpreti le tensioni dei personaggi, spingendoli all’aggressività e alla paura (alla ricerca di una presunta “verità ontologica” che vada oltre la semplice recitazione di un copione) e dall’altro trasferire nella sua opera il conflitto interno alla sua vita: le reiterate menzogne e infedeltà coniugali che riflettono la tragedia di un uomo che protesta di non poter essere diverso da quello che è, giungendo al completo smarrimento del senso e di sé.

Ma il gioco dell’ambiguità non si esaurisce certo qui. A un dato momento della lavorazione de La madre degli specchi è in campo un ciak con la dicitura: “Snake Eyes – A. Ferrara – K. Kelsch”, e più avanti, in un altro momento, il regista Eddie si rivolge al suo direttore della fotografia chiamandolo Ken, come appunto il direttore della fotografia di Ferrara. Viene da chiedersi se siano delle scelte studiate o se si trattava di un “vero” colpo di ciak di Occhi di serpente. In ogni caso, il rispecchiamento a Ferrara e alla sua opera è inevitabile. L’edonismo abbacinante di Russell/Francis e le frustrazioni del regista Eddie Israel, interpretato da Harvey Keitel, già “cattivo tenente”, non sono forse proiezioni empatiche dello stesso Ferrara? E quell’oscuro riemergere di “purezza” di Claire/Sarah, (interpretata da una Madonna allora in fase trasgressiva e proprio per questo convincente), non è omologo al misticismo erotico della suora stuprata nel già citato film? Inoltre c’è qualcosa che riguarda il processo di creazione artistica in sé, in particolare dell’esperienza di fare un film, sentita quasi come un’opera martirologica. Non a caso verso la fine di Occhi di serpente, quando Eddie si rende conto di non aver più altra scelta, dopo che ha tradito per l’ennesima volta la moglie, (stavolta con una hostess), ci troviamo di fronte a delle immagini di un documentario, Burden of dreams , che racconta le riprese del film Fitzcarraldo di W. Herzog.

In realtà siamo davanti proprio al regista tedesco, il quale parla delle difficoltà connesse alla sua attività: «Non dovrei più fare film. Dovrei andare a rinchiudermi in manicomio. Immediatamente…Molti aspetti di questa attività sono pazzeschi…Non è quello che un uomo dovrebbe fare nella vita, giorno dopo giorno. Anche se dovessi riuscire a portare quella barca sulla montagna e a finire il film, tutti potranno anche congratularsi con me e cercare di convincermi di quanto sia meraviglioso, ma nessuno al mondo riuscirà a farmi sentire felice e soddisfatto di tutto questo…Neanche se campassi cent’anni». Queste immagini sono di estrema rilevanza poiché testimoniano di un’ulteriore percorso di lettura del film, che ormai si avvia verso la conclusione. In questo vertiginoso rovesciarsi dei piani tra la realtà e la finzione, l’artista, e così anche l’uomo, è sconfitto nel suo tentativo di arrivare a una qualche verità. Il regista diventa un moderno Sisifo, che è costretto a trascinare una grossa pietra solo per lasciarsela sfuggire e ricominciare tutto da capo, e l’uomo è stretto in una morsa infernale, angosciato dalle difficoltà di discernere le ragioni dei propri comportamenti e della propria stessa esistenza.

 


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