Magnolia: l'America oggi di P.T. Anderson PDF 
Piervittorio Vitori   

ImageInizio con una doverosa ammissione di colpevolezza: quando apparve in sala, otto anni fa, bollai sbrigativamente Magnolia come la brutta copia di America oggi (che, qualunque sia il giudizio sulla terza pellicola di P.T. Anderson, è naturalmente per molta critica il riferimento più immediato). Troppo vasto e ambizioso per temi, un film che peraltro, oltre che del distaccato cinismo altmaniano, risultava privo della precisione geometrica degli incastri narrativi che, esasperata in America oggi, a Magnolia avrebbe giovato appunto per tenere imbrigliata la debordante materia trattata. Televisione e Bibbia, colpa e perdono, morte e redenzione… c’è tutto questo ed altro, in Magnolia, con il Caso a fare da croupier (citando uno degli episodi del prologo). E fin qui saremmo ancora su un territorio comune al film di Altman. Ma l’elemento che fa sì che l’opera del giovane regista californiano se ne discosti è che nelle sue vicende la casualità è stemperata da una sorta di umanesimo, cioè dall’empatia che l’autore pare sentire nei confronti dei suoi personaggi, e che non tarda a trasmettere al suo pubblico. In molti dei loro esponenti, sia l’umanità altmaniana che quella andersoniana risultano patetiche - il poliziotto fedifrago Tim Robbins da una parte, il guru del sesso Tom Cruise dall’altra, solo per dirne due -, ma di un patetismo che assume connotazioni diverse: quello di Altman, frutto di uno sguardo più freddo (da entomologo, come suggerisce con un’immagine fortunata Mereghetti (1)), induce ad un generalizzato disprezzo, fatte salve rare eccezioni, nei confronti degli uomini e delle donne che si incrociano a Los Angeles; quello di Anderson, viceversa, è più caldo, con il risultato di spingere alla piena adesione.

ImageLa differenza di approccio, termine inteso qui anche in senso strettamente spaziale, è suggerita fin dall’inizio: America oggi si apriva con le immagini aeree degli elicotteri che spruzzano diserbante, lasciando intuire la distanza tra osservatore ed osservato; Magnolia, al contrario, dopo il prologo e il titolo - con l’immagine del fiore che sboccia sulla mappa della San Fernando Valley a fare da sfondo -, entra nella diegesi con una mdp che si incolla ai personaggi a forza di zoom in. E le zoomate sui protagonisti saranno frequenti almeno nella prima ora di pellicola, grosso modo fino alla scena dell’ingresso nello studio televisivo dei concorrenti del quiz, girata con un piano sequenza di quasi due minuti. E come in questo caso non c’è soluzione di continuità visivo-narrativa, così l’intero film è giocato sulla continuità e omogeneizzazione emotiva del panorama umano messo in scena: lo dichiarano, ad esempio, l’utilizzo di un monologo (quello di Earl) o di un brano musicale (Wise up di Aimee Mann, con il suo ossessivo “It’s not going to stop”) che “legano” scene con al centro personaggi diversi. Personaggi per i quali ha una valenza comune anche il finale, all’insegna del riavvicinamento: dopo il tentato suicidio di Jimmy e la morte di Earl - gli unici a cui la sceneggiatura non lascia scampo -, il piccolo Stanley cerca di costruire un rapporto più sano con il padre, Frank va a trovare Linda in ospedale, Rose si reca a casa della figlia Claudia, Jim aiuta Donnie a rimediare al proprio errore e a rimettersi sulla retta via. Infine, e proprio su questa scena si chiude il film, il poliziotto e la tossica si ritrovano e paiono pronti a ricominciare una vita insieme. Si vede quindi come l’elemento esterno che fa irruzione nel prefinale, la pioggia di rane, indirizzi tutte le vicende verso delle conclusioni che senza dubbio presentano un comune denominatore a livello empatico, in cui si intrecciano la compassione e la speranza. Fattori chiaramente assenti in Altman, dove il terremoto acquisisce un senso diverso per i vari personaggi, un senso determinato dalle azioni già compiute in precedenza: “aiuta” Jerry a nascondere l’omicidio commesso, provoca divertimento in Earl e Doreen, appena riconciliatisi…

ImageE se l’umanità di Anderson è più coesa di quanto lo fosse la frammentata fauna di Altman è anche perché, come ha rilevato giustamente Roberto Escobar (2), a livello contenutistico l’elemento comune alle vicende di Magnolia è che si tratta in tutti i casi di storie d’amore, ciò che non si può certo dire di America oggi. Anzi, per essere più precisi, di ricerca d’amore. Una volta in più l’interpretazione è confortata dall’utilizzo della colonna sonora, che si apre con la presa d’atto della situazione di partenza di tutti i protagonisti (“One is the loneliest number”) e si chiude con un’invocazione d’aiuto finalizzata alla possibilità di amare (“Save me from the ranks of the freaks who suspect they could never love anyone”). E l’amore, in Magnolia, si trova in rapporto chiaramente oppositivo rispetto al sesso, assente o definito quale fattore negativo, come nel caso delle “lezioni” di Frank o degli amplessi iniziali consumati freddamente da Jimmy e da Claudia. Proprio il personaggio della ragazza è l’emblema di questa dialettica: la violenza subita da bambina è l’ostacolo allo sviluppo di relazioni sentimentali-sessuali sane, almeno fino al momento in cui Jim le dichiara il suo amore. Un Jim che, nel frattempo, ha perso la sua pistola, e si può agevolmente vedere in questa privazione il simbolo di una non-minaccia sul piano sessuale. Ma c’è da tenere ancora presente come sia un’altra la relazione affettiva che domina la pellicola: quella genitori-figli. Questo rapporto è centrale nell’opera di Anderson, a partire dall’esordio di Sydney e passando per l’exploit di Boogie Nights, che già presentava i termini amore-sesso in relazione oppositiva e si propone quindi come l’altra pietra di paragone ineludibile per Magnolia: anche lì, infatti, la componente patetica dei caratteri veniva umanizzata dalla ricerca della figura genitoriale (come nel caso di Rollergirl e del suo desiderio che Amber le faccia da madre). In Magnolia la funzione preminente che domina la relazione generazionale è quella del recupero, doloroso quanto necessario. Se Claudia non riesce a perdonare il padre che aveva abusato di lei, Stanley e Frank si trovano ad essere protagonisti, nello stesso momento, di un tentativo di fuga dal genitore, esplicitato nel primo caso dal rifiuto del ruolo di “genio del quiz” per cui il padre l’ha programmato, nel secondo dall’iniziale ostinazione a non recarsi al capezzale di Earl (dopo che il personaggio di Tom Cruise si era costruito una biografia fittizia proprio per sfuggire all’immagine paterna). Eppure alla fine i due non sapranno sottrarsi al confronto, ad una resa dei conti che per Donnie, altro figlio di un padre “colpevole”, assume la forma della restituzione della refurtiva, quindi della rinuncia a replicare il comportamento criminale del genitore di cui lui, bambino, era stato vittima.

ImageUltimo aspetto fondamentale del processo di umanizzazione dei protagonisti attuato da Anderson è il lavoro sugli attori, chiamato in causa dalla citazione di Sydney e, ancor più, da quella di Boogie Nights. Da quest’ultimo film, infatti, il regista “importa” buona parte del cast di Magnolia, utilizzandolo in maniera analoga: sempre mirando, cioè, a far emergere la componente umana da vicende diversamente drammatiche o squallide, e giocando a confermare l’immagine che il pubblico ha nel frattempo costruito addosso agli attori (si pensi al ruolo di William H. Macy non solo in Boogie Nights ma anche in Fargo dei Coen). La dinamica è, ancora una volta, opposta a quella sviluppata da America oggi, dove Altman giocava “contro” l’immagine abituale dei suoi interpreti, ad esempio assegnando a Tim Robbins e Frances McDormand - fino a quel punto della loro carriera titolari di caratteri positivi - due personaggi particolarmente sgradevoli. Per chiudere il cerchio, unendo l’analisi delle scelte attoriali a quella del senso del passato, può essere utile considerare il caso di Julianne Moore, “cerniera” tra il cast di Altman e quello di Anderson. In America oggi si difendeva dall’accusa di adulterio che le rivolgeva il marito, ma il confronto non rimaneva che un momento all’interno di una riconoscibile dinamica da coppia borghese; in Magnolia, viceversa, la sua esasperata sofferenza (lo sfogo in farmacia è tra le scene più drammatiche del film), unita al ribaltamento dello stereotipo che vuole la donna giovane e bella interessata solo al conto in banca dell’anziano marito, è in grado di conferire maggiore sostanza al rimorso per i tradimenti consumati, facendoci conseguentemente percepire con più forza quel passato con il quale -  come ripete spesso il film - possiamo illuderci di avere chiuso, ma che non chiude con noi.

In conclusione, se l’amoralità fredda e disincantata della Ronde altmaniana era dovuta anche ad uno sguardo prettamente sincronico, Anderson riesce a farci intravedere, alle spalle di una trama che si stende su sole ventiquattr’ore, un discorso diacronico articolato nelle tre fasi di colpa (che per tutte le relazioni, con la parziale eccezione di quella tra Stanley e suo padre, si collocava in un punto cronologicamente anteriore all’inizio dell’intreccio), confronto e risoluzione che, portando in primo piano la dimensione morale delle vicende, fa il paio con l’adesione all’umanità dei suoi personaggi. Cosa siamo disposti a perdonare?, è la domanda con cui ci lascia il film… A conti fatti, l’eccessivo, ambizioso, debordante, qua e là sfilacciato Magnolia è un film cui si può perdonare tutto, in virtù della generosità e del calore che ne emanano.

Note:
(1) Cfr. P. Mereghetti (a cura di), “America oggi”, in Il Merghetti - Dizionario dei film 2006, Milano, Baldini Castaldi Dalai, 2005, pp. 120-121.
(2) Cfr. la recensione del film apparsa su Il Sole 24-Ore, 26 marzo 2000.

TITOLO ORIGINALE: Magnolia; REGIA: Paul Thomas Anderson; SCENEGGIATURA: Paul Thomas Anderson; FOTOGRAFIA: Robert Elswit; MONTAGGIO: Dylan Tichenor; MUSICA: Jon Brion, Aimee Mann; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1999; DURATA: 188 min.

 


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