Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera PDF 
di Barbara Lorenzoni   

Un monaco e un bambino sono i protagonisti del film di Kim Ki Duk Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera. Un film lontano anni luce dagli spettacolari effetti hollywoodiani che invadono le sale cinematografiche, lontano da quelle manipolazioni della realtà che usano in modo parossistico montaggi sincopati e convulsi in molti film degli ultimi anni al punto dal renderne alcuni quasi inguardabili, lontano dall'ossessione di stupire, a qualsiasi costo, ricorrendo a rappresentazioni che si compiacciono della loro artificiosità, claustrofobiche e centripete, non solo improbabili ma soprattutto incapaci di 'arrivare' agli spettatori, di comunicare qualcosa, sempre che si ritenga compito del cinema quello di comunicare, cosa che ci si può chiedere, del resto, anche per altre forme d'arte.

Il film coreano ricorre a mezzi semplici del linguaggio cinematografico, si muove nell'ambito di una finzione che conserva dall'inizio alla fine un legame immediato, diretto e trasparente con la realtà, che non ha bisogno di ricorrere ad astrusi artifici, a strabilianti trovate. Potrebbe per questi aspetti definirsi naïf; di contro il suo impatto emotivo è forte se ci si abbandona alle suggestioni tutt'altro che scontate, che dietro a quelle visive si nascondono. Il monaco e il bambino dell'inizio del film non sono gli stessi della fine del film, in mezzo c'è un racconto morale, una rappresentazione della vita in chiave buddista, c'è il trascorrere di due esistenze, c'è il rincorrersi delle stagioni che alludono al passare degli anni, c'è l'alternarsi dei colori e delle luci sul lago che protegge e isola il minuscolo monastero che è il fulcro iconografico e tematico del film, ci sono una natura, un ambiente sempre uguali ma sempre diversi. Questo film dal titolo didascalico, fa dell'iterazione e della ciclicità la sua cifra stilistica più appariscente, la sua principale modalità di enunciazione. All'interno poi di una rete a maglie larghe costituita da numerosi elementi autoreferenziali, si inseriscono fili rossi che arricchiscono il tessuto del film con dettagli minimi ma che aggiungono spessore al suo significato. Così sono due i livelli in cui si presenta l'iterazione, uno più evidente ed esplicito che fa da cornice al secondo, più sottile e nascosto, come nelle scatole cinesi.

Al primo livello appartiene l'espediente delle porte di legno vicino alla riva del lago, la cui apertura, ripetuta, scandisce all'interno del procedere della narrazione il passaggio da una stagione all'altra in quell'angolo incantato di montagna in cui si trova il piccolo monastero galleggiante, ma anche gli episodi della vita del protagonista in quattro tappe . Porte simboliche, che aprono e chiudono su un angolo incantato e sospeso, ambiente naturale ma anche luogo dello spirito, immagine dell'interiorità, in cui sono affrontati e risolti i passaggi più difficili della vita del protagonista. Porte che alludono ad un'altra porta, ancora più simbolica e apparentemente inutile che vuole distinguere ambienti diversi nel grande locale che occupa la maggior parte del monastero.

C'è per tre volte una punizione, la pena che il protagonista deve scontare per rimediare alla sua colpa: prima deve portare una pietra sulla schiena, poi è costretto a perdere la ragazza di cui si è innamorato, infine deve incidere sul pavimento in legno della zattera una preghiera. Al primo livello appartiene anche un'importante iterazione diegetica quale il ripresentarsi alla fine del film del rapporto tra saggio e neofita, tra monaco e bambino, con cui il film era iniziato. Ma anche l'intervento in due momenti, di personaggi esterni al monastero: prima la ragazza malata, poi i due poliziotti venuti ad arrestare l'omicida. E ancora: nella emozionante immersione in un microcosmo fuori dal mondo, pieno di pace e armonia, lo spettatore può notare come le acque del lago facciano da doppio alla natura circostante, siano specchio della realtà nella finzione cinematografica.

Al secondo livello appartengono elementi più sfuggenti, in contesti molto circoscritti, come il ripetersi di un'azione crudele, la stessa, prima inflitta dal protagonista -bambino ai piccoli animali con cui gioca e poi subita, con scopi educativi, dallo stesso bambino, oppure come la presenza modesta ma significativa di piccoli animali domestici (prima il gallo, poi il gatto) che tengono vivo il legame con la natura, tema secondario presente in tutto il film. Infine c'è la piccola e onnipresente barca del monaco, unico, modesto tramite con il mondo al di là del lago, che oltre alla funzione concreta di mezzo di trasporto è il simbolo del cambiamento: ogni volta che si muove, infatti, nel suo percorso sempre uguale dalla riva al monastero e viceversa, segna quasi inavvertitamente una trasformazione. Il maggior pregio del film di Ki Duk è proprio quello di suggerire, attraverso una elaborazione piana, immediatamente riconoscibile e apparentemente banale della realtà, una riflessione sull'uomo senza intenti didattici e senza moralismi, ma con la levità e insieme la profondità della filosofia orientale, chiavi di lettura affascinanti ma del tutto sconosciute agli spettatori occidentali.

 


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