Amour: l'amore al tempo della morte PDF 
Fabio Fulfaro   

Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci.
(Blaise Pascal, Pensieri , n° 348 )

Che Michael Haneke sia uno dei registi più colti nell'attuale panorama cinematografico è fuori di dubbio. Il suo background culturale lo porta a verificare in ogni sua opera una particolare visione del mondo influenzata, per la parte contenutistica, dai filosofi esistenzialisti (Jean-Paul Sartre, Karl Jaspers certamente, ma senza dimenticare la fondamentale influenza di un esistenzialista ante litteram come Blaise Pascal), e da Bresson e Antonioni per il rigore formale dello sguardo. In campo letterario sono evidenti le influenze del Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud, soprattutto nella scarnificazione di ogni orpello non necessario alla rappresentazione; in campo artistico Haneke è stato sicuramente colpito dal movimento dell'Azionismo Viennese, attivo sin dalla prima metà degli anni Sessanta e caratterizzato da uno spirito altamente distruttivo verso i normali canoni figurativi. Il grande coraggio di Haneke è di amalgamare con rigore da farmacista tutti questi rivoli artistici e culturali e creare nella forma cinematografica un effetto perturbante/disturbante direttamente proporzionale alla distanza della messa in scena.

Amour è la storia della decadenza fisica e psichica di una legatissima coppia ultraottantenne di insegnanti di musica, lei, Anne (Emmanuelle Riva) colpita da ictus, lui, Georges (Jean Louis Trintignant), che prova a prendere su di sé il carico della sofferenza e della malattia. Amour si apre non a caso con un piano sequenza circolare che fa irrompere l'esterno nel microcosmo funereo ricomposto in una cornice floreale simbolica. Subito dopo, una immagine fissa sugli spettatori di un concerto pianistico in pieno stile Haneke: l'oggetto della visione rimane fuori campo, sentiamo la musica, l'armonia delle note, ma ci viene negata la fonte della sensazione. Di seguito una delle pochissime scene in esterni, la coppia sull'autobus di ritorno a casa. E poi il primo presagio: la serratura forzata, qualcuno ha provato a violare l'intimità di un interno borghese. A questo punto si entra nel tunnel, con i due personaggi letteralmente imbalsamati nella propria abitazione, topi del laboratorio hanekiano costretti a prove sempre più immani, con la fatica di vivere che aumenta in maniera esponenziale a ogni interruzione di scena. La morte sembra avere trovato il locus di minore resistenza per svilupparsi e diffondersi. L'insonnia, la fatica, la depressione, le prime avvisaglie nel deficit mnemonico. Sembra una reazione a catena biologicamente irreversibile scandita dalla precisione matematica di ogni inquadratura. Qualche ospite prova a inserirsi in questo privato: la figlia anaffettiva, il vicino premuroso, l'allievo riconoscente, le badanti e infermiere più o meno professionali. Ma la sensazione è che esistano due mondi che vanno ormai a due velocità differenti, totalmente estranei tra loro. Nella dualità vita-morte, bianco-nero, genitori-figli Haneke inserice anche la duplicità della percezione della decadenza, della realtà e della fantasia, della memoria e dell'amnesia. Il tema del doppio riguarda anche la necessità di rendere visibile quello che non lo è , mantenendo fuori dalla portata del campo di sguardo quello che per pudore dovrebbe rimanere dietro una porta sigillata con il nastro adesivo. Non esiste musica extra-diegetica perchè non c'è niente da enfatizzare. Gli unici momenti musicali sono delle sonate al piano (ritorna l'amato Schubert de La Pianista), spesso interrotte bruscamente, in maniera autocensoria. La domanda che viene posta incessantemente (quasi ossessivamente) in ogni pausa, in ogni interruzione, in ogni brusco taglio di montaggio, è quale sia il senso della nostra esistenza; la sensazione è che non ci sia una risposta perchè non ci sia il senso. Georges/Trintignant vede la propria compagna letteralmente spegnersi e contemporaneamente osserva una anticipazione del proprio destino. Il suo dolore è fotocopiato nelle smorfie e nell'afasia di una Emmanuelle Riva assolutamente superlativa. Un dolore indicibile, inesprimibile, non rappresentabile. La scena del primo attacco ischemico è prolettica rispetto all'irruzione violenta della morte in un recinto di pochi metri quadrati: Georges chiede il sale e non ottiene risposta, poi prova con qualche altra domanda. Silenzio-assenza: la morte è questa interruzione di comunicazioni, telefoni che squillano senza risposta, messaggi infiniti nelle segreterie telefoniche, frasi incomprensibili in un corto circuito verbale che richiama filastrocche infantili. I due attori, senza alcun trucco cinematografico, donano il loro corpo invecchiato e rallentato a una macchina da presa che li viviseziona senza alcuna retorica, riducendo la rappresentazione all'essenziale.

Nelle prime opere di Haneke, dalla trilogia “glaciale” (Il Settimo Continente, Benny's Video e 71 frammenti di una cronologia del caso) fino ad arrivare a Funny Games, l'influenza di Artaud e degli “azionisti” viennesi conduceva verso una rappresentazione della realtà senza sconti, senza evoluzioni narrative, per lanciare messaggi morali senza un lieto fine e, spesso, senza nemmeno una fine. Il cinema di Haneke moltiplicava il suo potenziale eversivo costringendo lo spettatore a scegliere e quindi a precipitare nel senso di angoscia di chi comincia a realizzare il vuoto e la fragilità dell'esistenza umana. Uno sguardo cinico, specchio di un'Austria disillusa in preda a nuovi fantasmi reazionari (ricordiamo la terribile figura dell'ultranazionalista Haider che ha solcato la scena politica dal 1989 fino agli anni 2000). Anche la successiva produzione di Haneke ha viaggiato su questa deliberata “omissione del lato bello della vita”, per mettere davanti agli occhi dello spettatore il suo lato oscuro, l'attrazione della violenza, la repressione del normale istinto sessuale, la stupidità della routine quotidiana, la mancanza di morale nella società dei consumi. Esemplificativo l'incontro con la scrittrice premio Nobel Jelinek e la trasposizione cinematografica del suo romanzo La Pianista, in cui l'oppressione familiare generava una sessualità perversa. O ancora Cachè, in cui l'obiettivo principale del regista austriaco (ma nato a Monaco) era di incatenare lo spettatore tenendogli gli occhi bene aperti di fronte all'orrore della quotidianità e ai fantasmi della xenofobia e dell'intolleranza culturale.

Haneke combatte l'immaginazione al potere perchè fa emergere il lato mostruoso dell'uomo, combatte l'illusione cinematografica perchè allontana lo spettatore dal prendere atto che dietro i fuochi di artificio e gli spot pubblicitari, dietro gli sfondi di cartone e le pailettes, gli ipermercati e il sottofondo incessante del mezzo televisivo, si nasconde il cancro dell'estensione del dominio della lotta, dal regno economico a tutti gli altri campi della nostra esistenza. In Amour c'è un bellissimo dialogo in cui Anne contesta al marito il proprio stato di infermità e la sensazione di essere diventata un peso: Georges ribatte di immaginare i ruoli invertiti, lei avrebbe fatto lo stesso, si sarebbe presa cura del coniuge. La risposta definitiva di Anne è lucida e incontrovertibile: non abbiamo a che fare con l'immaginazione, abbiamo a che fare con la realtà. E la differenza è abissale, e rende l'uomo più vicino al mostro, lontano dall'ideale di forza e di bellezza delle fotografie della gioventù. E così la memoria, il ricordo, perdono la valenza consolatoria ma assumono le rassegnate fattezze del rimpianto, del rimorso, del senso di colpa. Si interrompe la registrazione del CD di musica perchè si viene sopraffatti dai ricordi. Quel tempo non potrà mai tornare indietro, non sarà possibile riavvolgere il nastro come nel giochetto perverso di Funny Games. Eppure, sorprendentemente, proprio con Amour, Haneke tende ad ammorbidire una parte consistente del suo rigore “pascaliano” e inserisce sin dal titolo un elemento totalmente inesplorato nelle precedenti opere. La dedizione e il prendersi cura diventano una forma di compartecipazione e di condivisione. Per la prima volta, scatta una forma di empatia tra i due personaggi con un effetto totalmente destabilizzante. Lo sguardo sulle pitture degli impressionisti e le musiche di Schubert non sono momenti per esorcizzare il fantasma della demenza senile. In realtà questi oggetti, queste cose, queste musiche avevano un loro senso solo quando la coppia si trovava in uno stato di normalità: l'irruzione della malattia e della morte svuota di significato i simulacri di queste stanze.

Anche le sequenze oniriche, quella angosciosa all'inizio del calvario e quella liberatoria nel prefinale, lasciano spiazzati perchè assolutamente atipiche nel percorso dell'autore austriaco. Stavolta non c'è solo la “consapevole omissione del lato bello della vita”, ma un tentativo di riaffermare il rispetto della dignità del singolo individuo di fronte alla dipendenza e all'impossibilità di soddisfare le normali esigenze del vivere quotidiano. Il litigio con l'infermiera aguzzina è sintomatico di questa inversione di tendenza. E la figura della figlia della coppia, interpretata da Isabelle Huppert porta lo spettatore a rielaborare un percorso di distanziamento visivo ma di partecipazione emotiva. Sentire parlare di mutui e di azioni in borsa mentre a pochi centimetri si sta compiendo il dramma della malattia in tutta la sua crudeltà non lascia sicuramente indifferenti. Anche la posizione dei personaggi sulla scena sottende questa differenza: la figlia in piedi a una certa distanza con le braccia conserte, la madre delirante a letto con la flebo attaccata. E quella successione di immagini sulle stanze vuote richiama certi momenti del cinema di Michelangelo Antonioni: l'assenza rimanda a una pregressa presenza, il contrasto tra la vita che si immaginava e la vita come è diventata genera l'immagine ferma. Annulato lo spazio, annullato il tempo, velocità zero. L'eclisse dell'umanità.

Haneke rischia anche l'eccessivo simbolismo (altro strappo nella sua poetica dell'essenziale) nella scena del piccione che per ben due volte penetra all'interno dell'abitazione e che alla fine verrà “liberato”, così come Emmanuelle Riva sarà sganciata dalla prigionia del proprio corpo ormai muto. Ma si ferma al momento giusto tenendo la morte avvolta da una coperta e relegandola al perturbante della visione negata. Raccontare una storia prima di scivolare nel sonno. Può essere un aneddoto dell'infanzia, per diminuire lo stato di vigilanza e allentare lo stato di coscienza. Cosi è più facile alleviare il dolore, calmare l'angoscia e prendersi il giusto tempo per l'atto d'amore finale, necessario e sufficiente. I fiori simbolo di gioia, un messaggio cifrato di sofferenza: non è un caso che la ricomposizione floreale del cadavere assuma una valenza di esorcismo dell'immagine della morte e richiami il sogno bressoniano di una uscita liberatoria (“mettiti il cappotto”), finalmente sganciati dalle catene del corpo, piegato e piagato dalle fatiche di Sisifo. Al vuoto di stanze buie e disabitate si contrappone l'ultima bergmaniana scena con Isabelle Huppert che, nella casa inondata di luce, seduta su una sedia, in un iniziale processo di consapevolezza, prova a mettere a fuoco un punto infinito fuori dall'inquadratura. In un percorso di evoluzione artistica che nel corso degli anni ha portato Haneke a limare gli aspetti sadici e le provocazioni e a rimodulare un patto di non belligeranza con lo spettatore, Amour rappresenta una straordinaria opera d'arte che parla a bassa voce e senza autocompiacimenti del destino di fragilità della nostra esistenza, ma contemporaneamente fa intravedere il tenue raggio di luce nel rispetto per ogni essere umano che si spegne, rallentando il tempo nella magia di un silenzioso piano-sequenza e mettendo, letteralmente e senza mezze misure, la morte fuori campo.

Letture:
Fabrizio Fogliato. La visione negata. Il Cinema di Michael Haneke, Edizioni Falsopiano, 2009.

 


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