Che il nuovo film di Noah Baumbach giri intorno a Ben Stiller, fresco di commedie familiar-demenziali come Vi presento i nostri e Un microfono per due (per non citare che i primi titoli della lista), non è necessariamente un male. Né un caso. In fondo il suo Roger Greenberg ha giusto l’aria di qualcuno che di scemenze in vita sua ne ha fatte parecchie, anche in un passato non troppo remoto.
A fungere da spartiacque esistenziale, ci informano, è stato un esaurimento nervoso che l’ha spedito in clinica per un po’ di tempo: quanto esattamente non è dato sapere, anche se, osservando i sintomi del suo spaesamento, lo spettatore sarebbe tentato di correggere la diagnosi a posteriori in “coma farmacologico”. Nello stravagante mondo (degli altri) Roger si aggira come uno appena scongelato da un’ibernazione lunga dieci anni: nel frattempo, quasi tutti coloro che gli stanno intorno sono cresciuti, si sono sposati, hanno messo su famiglia o perlomeno la testa a posto. Lui, invece, continua testardamente a non voler prendere sul serio i suoi quarantun’anni. E se parenti, amici ed ex fidanzate hanno poco tempo e considerazione da riservargli, ecco che cerca il suo posto fra un nipotame poco più che adolescente, e l’amore con una ventenne di servizio presso la casa del fratello. Meno strapazzata dalla distribuzione italica rispetto alla precedente Il matrimonio di mia sorella (uscita solo in home video), la terza fatica di Baumbach registra qualche significativo passo avanti rispetto alla sua ancora giovane produzione. Per la prima volta, infatti, le dinamiche che mettono in moto il racconto hanno luogo al di fuori del nucleo famigliare: il fratello di Roger e i suoi congiunti abbandonano la scena già dai primi minuti, lasciando campo libero al protagonista. Di lì in poi le attenzioni di regia e scrittura si concentreranno soltanto su di lui, tratteggiandone un profilo dettagliato proprio a partire dai suoi tic infantili: per prima cosa, l’ostinazione a imporre a tutti gli altri la “sua” colonna sonora, già vecchia di qualche anno, fatta di quegli Albert Hammond e Duran Duran che alla sua giovane lei a e ai suoi giovanissimi ospiti proprio non dicono niente. Poi l’hobby – così infantile da sembrare quasi anziano – di scrivere lettere di protesta e indirizzarle a qualsivoglia ente, istituzione, azienda o personalità pubblica. E infine la sua goffaggine, nella formidabile scena di (non) sesso con Greta Gerwig, e il suo scalciare nervoso, quelle rare volte in cui persino lui si rende conto di stare nel posto sbagliato al momento sbagliato.
I tratti caratteristici del personaggio vanno ad aggiungersi ad alcuni motivi ricorrenti nelle psicologie baumbachiane, tutti con una storia “in sospeso” alle spalle, tutti bambini troppo “grandi” per la loro età o adulti che non vogliono saperne di crescere. Questi ultimi presi di peso dalla filmografia del maestro e collaboratore Wes Anderson, ma con una sostanziale differenza: se l’autore de I Tenenbaum, nel tempo, si è dedicato soprattutto agli affreschi corali, il suo ex sceneggiatore sembra avere scoperto buone doti anche come ritrattista. Supportato anche dal lavoro sobrio ed efficace dello stesso Stiller, Greenberg finalmente le rivela al pubblico, e si dimostra un regista che, al contrario dei suoi personaggi, non ha paura di crescere.
TITOLO ORIGINALE: Greenberg; REGIA: Noah Baumbach; SCENEGGIATURA: Noah Baumbach; FOTOGRAFIA: Harris Savides; MONTAGGIO: Tim Streeto; MUSICA: James Murphy; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 107 min.
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