La bellezza del somaro PDF 
Simone Dotto   

Avranno avuto ragione loro, quelli che dicono “rossi e neri tutti uguali”. Nella sentenza qualunquista che trentatré anni fa faceva infuriare il Nanni Moretti autarchico in piena crociata anti-commedia (“dove siamo, in un film di Alberto Sordi?”) forse stava davvero il verbo oracolare che sostenevano i suoi predicatori. O magari no, ma a forza di ripetersele, le banalità, come le bugie, diventano realtà. Destra e sinistra, uguali sono. La falsa profezia si è avverata da sé, e le conseguenze non si fermano mica ai problemi di coscienza di qualche nostro parlamentare. Si allargano agli intellettuali per primi, e a tutta quanta la società, la buona società innanzitutto, dove la distinzione ontologica tra i due schieramenti si fa sempre più impalpabile: di questo parlava un film di Paolo Virzì del 2008, Caterina va in città, dove Sergio Castellitto prestava il volto a Giancarlo Iacovoni, un professore frustrato perché rimasto fuori dal giro che conta. Ora, affiancato un’altra volta dalla moglie Margaret Mazzantini in fase di scrittura, quel “giro che conta” sceglie di raccontarlo lui, davanti e anche dietro alla macchina da presa.

Tra gli intenti dichiarati de La bellezza del somaro c’era, secondo lo stesso attore e regista, quello di avversare un “certo cinema” che ogni Santo Natale fa incetta ai botteghini italiani. Ci siamo. La storia recente di questa sinistra che si sforza di lasciarsi alle spalle i suoi complessi di superiorità morale potrebbe essere riassunta solo elencando le invasioni nel territorio nemico. Alla ricerca della ricetta per il “cinepanettone progressista”, della commedia crassa che faccia ridere anche il professorino, della pietra filosofale che lusinghi i critici e allo stesso tempo batta cassa. Ci ha provato anche Neri Parenti, con un paio di Vacanze di Natale in versione prodiana, e sugli stessi tentativi Giovanni Veronesi ha costruito un impero, come farà anche Fausto Brizzi. Castellitto arriva dopo tutti, ma forte di un curriculum e di un’appartenenza che lo qualificano. Agguerritissimo e intento a pareggiare in un sol colpo la vasta fenomenologia di evasori fiscali pazzarelloni, di ingegneri e avvocati fedifraghi e/o cornificati, di mogli persecutrici e succhiasoldi che la tradizione della nostra commedia popolare ci ha proposto fin qui. Ecco allora schierarsi dall’altra metà del campo i loro alter ego, i componenti della squadra degli ex-sessantottini: c’è Marcello (Castellitto), architetto stimato e padre fin troppo comprensivo. C’è la moglie Marina (Laura Morante), psicologa con turbe psicologiche che non sa dir di no ai suoi pazienti. E poi c’è l’amico medico e puttaniere, il broker con auricolare incorporato, una colf serva-padrona dall’austero accento russo, la preside incapace di tener testa ai suoi stessi figli e la giornalista tabagista ossessiva, al costante inseguimento di una connessione wi-fi a cui aggrapparsi. La bella combriccola si raduna attorno al casolare in Toscana dei due coniugi e parte un’arcinota sarabanda: quella che finisce col sedere nella torta e la torta che finisce in faccia a quell’altro, l’inglese maccheronico dell’agente di borsa, i figli strafumati e strafottenti, la baguette che fa rima con “figuette”, la strizzatina lì in basso all’architetto, punizione per mano di un’amante giovane e bella, Lola Ponce, da Sanremo al cinema d’autore, un volto e un culo bipartisan.

Se fosse una commedia sul modo di fare la commedia “a sinistra”, La bellezza del somaro sarebbe un piccolo capolavoro metacinematografico. Di tanto in tanto la speranza viene, confidando nelle recitazioni caricate ad arte e nei toni, troppo nevrotici per non essere voluti. Ma a conti fatti è proprio di queste intenzioni farsesche che il film si compiace fino a scordarsi tutto il resto, per esempio della splendida verità non-attoriale di Enzo Jannacci, inghiottito dai ritmi vorticosi e costretto a pronunciare ridicole metafore da pseudo-saggio. È una satira che non funziona perché è troppo simile ai personaggi che vorrebbe dileggiare. Laddove per giustificare i suoi misfatti un Vanzina potrebbe vantare una lontana discendenza dalle comiche slapstick, ma niente di più, qui si scomodano senza vergogna i numi tutelari di Cechov e Ferreri, si infarciscono i dialoghi di citazioni letteral-teatrali e si pretende, infine, di risolvere il complesso di Peter Pan e quello di Edipo di una generazione intera soltanto mettendo luoghi comuni e stereotipi di fronte ad uno specchio deformante. È una satira che non funziona e infatti piace a quelli che dovrebbero sentirsene colpiti: hanno scritto di “un feroce affresco contemporaneo”, di “una generazione che fa i conti con se stessa”, di un “film che fa ridere e pensare”. Lo hanno scritto e lo scriveranno, cosicchè tutti – regista e spettatori, critici e lettori – trovino le loro buone ragioni per sentirsi assolti e andare avanti, fino al prossimo cinepanettone. Fino a quando qualcuno non capirà che, se pure a destra e a sinistra sono tutti uguali, almeno chi si incarica di raccontarle dovrebbe sforzarsi di essere un pochino “diverso”.

TITOLO ORIGINALE: La bellezza del somaro; REGIA: Sergio Castellitto; SCENEGGIATURA: Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini; FOTOGRAFIA: Gianfilippo Corticelli; MONTAGGIO: Francesca Calvelli; MUSICA: Arturo Annecchino; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2010; DURATA: 107 min.

 


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