Il male della carne. L’angoscia in Brood, tra Canada e psiche PDF 
Marco Santello   

Il Canada monotono e inquietante è al centro di Brood. È un paese visto attraverso una lente diafana che indaga la carne, le sue malformazioni e il suo impossibile adattarsi alla superbia umana. Gli ambienti lugubri e insani si popolano di figure squilibrate che rincorrono una guarigione della mente che sembra affidata ad un Frankenstein superumano. Come se il paese tutto fosse affetto da una patologia che è insieme interna e somatizzata, nonché disperatamente in cerca di sollievo. Né paternità né maternità possono donare attimi sereni e riconciliare i personaggi con la vita. Anzi sono proprio i rapporti parentali ad essere in Brood fonte inesauribile di terrore e insieme spinta alla salvezza a  tutti i costi. Così l’orrido proviene dallo statuto del generare, dalla sua natura ambivalente di amore e distruzione, non semplicemente dall’intervento di una figura esterna che si erge a demiurgo. Violenza e nascita s’intrecciano come in un magma onirico, che si reifica nella morte come strumento di elaborazione e superamento.Si tratta di una forza distruttiva che si manifesta agli occhi dello spettatore con il mezzo del disgusto, come quando la protagonista lecca il sangue del suo piccolo appena uscito dal bozzolo. Oppure come quando l’odio recondito si travasa in un transfer verso i malefici figli, diventati mezzo vivente di risoluzione di conflitti psichici. Figli, tra l’altro, destinati alla morte precoce (si nutrono attraverso una sacca di grasso che si esaurisce presto) e verso i quali lo spettatore è portato a provare repulsione e rancore a causa della loro spietatezza ceca.

Questo rancore, inesorabilmente, non si esaurirà neanche dopo aver capito l’assenza di colpa degli esseri deformi e il loro essere automi soggiogati da una psiche malata avulsa da loro. Il disgusto non se ne va, anzi si amalgama con la repulsione e l’odio, mettendoin luce il lato oscuro che accomuna esseri umani e disumani. In questo modo l’orrore di Cronemberg è connesso all’angoscia della psiche individuale e nello stesso momento ne trascende i connotati particolaristici per toccare una dimensione sociale ampia, veicolata per lo più da quel Canada opprimente, il cui inverno secco diventa l’emblema della solitudine in cui naviga l’angoscia. Qui la fotografia diventa nel film mezzo di ampliamento, se non traslazione, di significato: in una maniera dimessa ma straordinariamente efficace. Ma tutto parte dalla carne, affetta da un male che repelle, come i tumori linfatici che formano un nido attorno al collo di uno dei personaggi.

In altre parole è come se il processo patologico partisse dal basso, cioè dalla constatazione di un corpo sofferente per poi risalire all’eziologia mostruosa che lo ha generato e che, ovviamente, risiede nella materia grigia. Così l’horror psichiatrico di Cronemberg si avvinghia alla materia tangibile e ferisce profondamente lo spettatore, così come fa male lo sguardo triste della bambina che resta impassibile, forte e troppo adulto fino alla fine, senza modiche sostanziali. Quello sguardo indimenticabile si erge, in questo modo, ad atto d’accusa verso quel paese (o quella città?) la cui carne malata è angosciante come la peggiore delle follie, ma allo stesso tempo resta un amatissimo genitore. 

 


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