8 mile: cultura metropolitana a ritmo di rap PDF 
di Roberto Manassero   

Non credo sia troppo assurdo paragonare 8 Mile ad Alì di Michael Mann. Premesso che 8 Mile non è la biografia di Eminem, nonostante ci siano forti elementi autobiografici nel personaggio di Rabbit, non diversamente da Alì, anche 8 Mile è il ritratto di un'artista (Mohammad Alì era un artista del ring), diretto da un regista bianco e benestante che, proprio come Mann per il mondo della boxe e dei neri, si è calato in una cultura, quella rap, che non gli appartiene, per raccontare la vita di persone diverse per cultura e rango sociale.

 

Alì è un film dentro la boxe, dentro gli anni Sessanta e, soprattutto, dentro l'uomo Mohammad Alì, un'opera lirica con la quale Mann, come ha dichiarato egli stesso, ha voluto "situare il pubblico dentro la prospettiva di Ali, su come il mondo giri e funzioni per lui". Con Eminem potrebbe essere lo stesso: il mondo nel quale Hanson si cala è quello degli anni Novanta (siamo nel 1995), della periferia degradata e poverissima di Detroit, della cultura rap come sfogo contro le ingiustizie del mondo e antidoto alla violenza fisica; è un mondo inesplorato e sconosciuto, "altro" rispetto al retroterra culturale del regista, il quale utilizza proprio il personaggio di Eminem/Rabbit, bianco e, adesso, benestante quanto e più di lui, come tramite per cercare di capire, raccontare, rappresentare.

8 Mile, però, fallisce proprio laddove gli intenti dei suoi autori (Eminem compreso, credo) avrebbero voluto condurlo. Il film di Hanson avrebbe potuto (e dovuto) essere un film sul mondo del rap, sull'America proletaria raccontata dalla rabbia, dall'ironia e dalla forza di spirito di ragazzi che come unica arma contro la povertà e il degrado sociale hanno l'eloquio. Come Alì, avrebbe potuto essere la storia di un uomo e della sua visione del mondo attraverso, sono ancora parole di Mann, "le sue scarpe e la sua pelle"; e come Alì è un black film realizzato da un regista bianco, così 8 Mile avrebbe potuto essere un rap film realizzato da un regista che del rap e di Eminem, molto probabilmente, prima del film non gliene importava nulla.

Il mondo del rap è, dopotutto, un universo da scoprire tanto quanto quello dell'università e della letteratura raccontato da Hanson in Wonder Boys, commedia spiritosa, ironica e corrosiva con la quale l'intellighenzia americana di sinistra, borghese e un tantino snob, usciva allo scoperto con un misto di risentimento e ammirazione. In Wonder Boys era proprio il corpo di Grady Tripp, scrittore in crisi d'identità e ispirazione, a fare da tramite: la sua vestaglia rosa e i suoi capelli troppo lunghi raccontavano un mondo e le sue debolezze più di ogni pagina scritta. E non è un caso che Hanson utilizzasse procedimenti tipicamente "manniani" per filtrare la rappresentazione attraverso il suo eroe, in particolare con primi piani di particolari del viso e attraverso la fisicità insistita di uno sfatto Michael Douglas.

 

A tutto ciò il corpo di Eminem e l'apparato "scenografico" del rap si sarebbero adattati benissimo: la pelle bianca del rapper in un mondo di neri sarebbe stato l'utile tramite col quale evidenziare la singolarità del personaggio e, di conseguenza, l'estraneità partecipe della macchina da presa; le sequenze di pantaloni larghi, maglie col cappuccio, scarpe della Nike e gergalità incomprensibile sarebbero stati utili espedienti fisico-narrativi per raccontare un mondo attraverso i suoi simboli e le sue modalità d'uso. Per dirla con Mann, rappresentare la cultura rap attraverso la pelle bianca di Eminem e le sue enormi scarpe da ginnastica sarebbe stato molto più interessante piuttosto che raffigurare la parabola di sconfitta, vittoria e rinuncia di un eroe solitario che vaga nei sobborghi dell'America proletaria così come potrebbe fare nel West della frontiera. Ciò che si vede "da dentro" il corpo di Rabbit/Eminem rimane sempre al di qua della rappresentazione, compresso nelle maglie ristrette di una messinscena realista e pauperistica che contraddistingue il cinema americano ogniqualvolta si addentri nei quartieri degradati delle grandi città.

Vedere gli edifici fatiscenti di Detroit, le roulotte adibite a casa, le strade buie bagnate dalla pioggia, la pressa meccanica di una fabbrica o le scintille dei saldatori fa molto neorealismo, ma, alla fine, il rap diventa solo uno dei tanti elementi di un melodramma familiare che mette in scena il solito duetto tra un figlio svitato ma geniale e una madre un po' puttana ma affettuosa. Dopotutto, a conferma di questa lettura, il film che si vede in tv a casa di Rabbit non lascia dubbi: è Imitation of Life di Sirk, family melodrama che mescola i temi del razzismo, dell'aspirazione artistica, della crisi d'identità di chi è di un colore e vorrebbe essere di un altro – in pratica gli stessi di 8 Mile.

Ciò che però si vede attraverso lo sguardo di Rabbit quando questi viaggia sul pullman con il walkman acceso è qualcosa di diverso. È la periferia dell'America vista attraverso gli occhi di uno dei suoi figli che usa il rap come fuga dal proprio mondo; è la realtà vista dal punto di vista di un genere le cui canzoni, i cui ritmi sincopati e rime forzate fanno da colonna sonora ad immagini che non sono più semplicemente realistiche ma, grazie al tramite della musica e del personaggio che l'ascolta (e la compone), diventano frammenti di un mondo rappresentato attraverso una prospettiva soggettiva e personale.

L'inizio stesso sembra portare il film verso questa direzione: sulle note di una musica rap, Rabbit, con le cuffie nelle orecchie, si concentra davanti allo specchio prima di una sfida a colpi di rime "rappate". La canzone sembra extradiegetica, scorrono pure i titoli di testa, ma non appena Rabbit si toglie le cuffie questa smette, svelando la vocazione del film ad essere, come auspicato, opera rap piuttosto che sul rap. In questa prospettiva, la musica diventa un moto della testa e del cuore, il rap un modo di vivere prima ancora che un genere musicale, il cinema un mezzo per indagare il rapporto tra personaggio e realtà non nelle forme del realismo classico, ma in quelle distorte di una visione frammentaria "dal di dentro".

 

L'errore di 8 Mile è, però, proprio quello di non sfruttare tale linea rappresentativa, cercando all'opposto di spiegare la cultura del rap senza addentrarvici, senza sfruttare le potenzialità ritmico-visive che il rapporto tra musica e immagine avrebbe potuto far emergere. In alcuni momenti Hanson arriva a cogliere tale rapporto e a regalare al pubblico lampi di verità ed emozione: quando le sfide a colpi di rime diventano un'efficace antidoto alla violenza (qui, se non si canta, ci si legna), quando un dialogo tra amici diventa all'improvviso una ballata rap sulle note di "Sweet Home Alabama", quando la gara ufficiale tra Rabbit e il nero campione in carica diventa una vera e propria sfida all'OK Corral. Il rap diventa così un'autentica forma d'arte, e la vena artistica di Rabbit/Eminem una specie di lirismo blasfemo che porta in canzone, così come un tempo si faceva con la poesia, le più variegate esperienze della vita, sublimando la rabbia nell'improvvisazione tipica dell'arte da strada.

Hanson, proprio in questi momenti, si ricorda di essere un regista che sa raccontare le particolarità e le caratteristiche di un mondo specifico: il senso delle immagini emerge dalle parole delle canzoni e dai gesti dei personaggi; i ritmi interni all'inquadratura, dati dai movimenti dei personaggi che seguono le note della musica, arrivano a dettare i tempi del film e ad innescare l'emozione partecipe del pubblico. In una delle ultima scene del film, durante la sfida finale, 8 Mile arriva finalmente a dire ciò che forse ci si sarebbe aspettato per la sua intera durata: nella parte destra dello schermo Rabbit si muove al ritmo sincopato della sua canzone, mentre dietro di lui il pubblico lo segue ballando a mani alzate. Il rapporto tra il protagonista e gli altri personaggi crea un intimo legame tra primo piano e profondità di campo, mentre nella ritmata fisicità dei personaggi sembra di poter cogliere per la prima volta la qualità trascinante della musica rap e la sua portata liberatoria, arrivando finalmente a dialogare con un mondo altrimenti irrimediabilmente separato da noi.

 


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