Moonrise Kingdom: Wes Anderson e il cinema dei binocoli PDF 
Francesca Dimasi   

Sam - “Perchè usi sempre il binocolo?”. Suzy - “Aiuta a vedere le cose vicine anche se sono molto lontane. Fingo che questo sia il mio potere”. Il segreto sta tutto qui. Quello di Moonrise Kingdom non è un nuovo mondo, non è un costrutto di mondo (più di quanto non lo sia quello vero), non è un mondo improbabile (piuttosto è inverosimile), è più semplicemente un mondo lontano... che più si avvicina e più i colori diventano sgargianti. Non è detto però che, nell'avvicinarsi, questo mondo divenga familiare; al contrario, quanto più è a portata di mano, tanto più ci mostra le sue anomalie, le sue interdizioni. Ed è lì, proprio in quell'istante, che si impone la necessità di circoscriverlo, di “osservarlo al microscopio”.

La filmografia di Wes Anderson si configura come un Atlante di mondi lontani farciti di sano realismo e di ancor più sana immaginazione, dove il dato reale è semplicemente astratto (nel senso di prelevato e modificato) nei suoi dettagli. È dunque il dettaglio a costituirsi come eccesso e non il contesto che lo contiene. Partiamo dal caso Moonrise Kingdom (sebbene le stesse osservazioni possano valere per buon parte dei suoi film). La storia è quella intramontabile di due adolescenti “diversi”, due pesci fuor d'acqua che si incontrano, si amano  e pianificano la fuga, lei da una famiglia squinternata e al contempo codina, lui dalla coppia di tutori che lo “accudisce” dopo la morte dei genitori, nonché dal beneamato corpo degli scout di cui è membro, in qualità di esperto tiratore e cartografo. Fin qui tutto bene. Se non fosse che già la scelta del setting, l'isola (che non c'è) di New Penzance - estesa 26 km, ricoperta di aceri e vecchi pini, priva di autostrade ma ricca di sentieri impervi a ridosso del territorio dei Chickchaw, in cui vi si trova il vecchio faro nero, già famoso per la tempesta che ancora non si è abbattuta sull'isola ma di lì a breve lo farà -, basta da sola a delineare i contorni di un luogo anomalo, che non esiste nelle sue denominazioni geografiche ma che è reale come landscape diegetico. L'isola, i suoi estuari, le guglie dei suoi scogli, i cumuli rocciosi sui fianchi, e come sempre il faro, sono luoghi del mondo reale e però dalla forte caratterizzazione immaginifica, luoghi cioè che sembrano alla deriva dei continenti e prossimi al paesaggio mentale. Il faro in particolare, e la sua isola, sono di per sé evocazioni narrative e figurative, simboli di quella rottura con la continuità continentale, e dunque col mondo, di quella visione (l'occhio del faro) oramai lontana eppur sempre vigile.

Oramai lontana appunto, ma non irreale. Allora diciamo che se i nomi, e persino le mappe, di questo luogo diegetico sono inventati di sana pianta, è altrettanto vero che i suoi riferimenti visivi esistono (esistono cioè anche nel mondo fisico e non solo in quello filmico) e presentano dettagliate determinazioni morfologiche, così come puntuale è la periodizzazione della vicenda (il 1965 appunto). Restano dunque le anomalie, ma come interventi formali su una materia immediatamente ritrovabile. Questo per dire che diamo atto ai sostenitori di un confronto serrato tra il cinema di Wes Anderson e quello di Tim Burton, rispetto a una comune vocazione al profilmico (che altro non è nel caso di Burton se non la “costruzione ex novo” di ciò che viene prima della messa in quadro), ma siamo altresì tentati a riferire della profonda diversità di soluzioni praticate dai due autori nella costruzione di questi mondi. Nel caso di Wes Anderson le operazioni sul profilmico sono da intendersi più come “giochi di composizione”, di editing interno ai singoli quadri, interventi di collage tra elementi discordanti che puntano alla preminenza del dettaglio su un insieme composto (pacifico) e composito: la casa rossa dagli interni a scatola cinese immersa nel verde dell'isola, la corda di recinzione bianca puntellata di nastrini rossi, che taglia a trequarti le inquadrature di una severa panoramica laterale durante la scena delle ricerche, il vecchio cartografo in giacchetta rossa che spacca a metà un quadro bilanciato (dalle due auto parcheggiate sui lati) e fortemente prospettico, la faccia sgomenta del caposcout che, insieme al suo coro di piccoli soldati, viene immortalato in un quadretto piramidale (qui l'anomalia è l'affollamento del quadro in opposizione ai quadri successivi disciplinati dal vuoto e dall'ordine militare della tenda del disertore Shakusky), sempre il caposcout al centro di un bunueliano quadro “cenacolare”, dove i discepoli sono sempre i piccoli e feroci scout.

Proseguendo, la ricerca dell'autore iniziata con i primi cortometraggi, di una scrittura registica capace da sola di produrre scompensi, effetti parossistici e una comicità del rigore, approda con Moonrise Kingdom su una terra ferma di movenze enunciative lineari, geometriche e a tratti altezzose, movimenti di macchina uniformi, panoramiche multidirezionali ma fluide, che forniscono un'accurata mappatura della superficie del visibile, e altrove (mediante “kubrickiani” zoom a stringere e ad allargare), una puntuale percorribilità della profondità spaziale (esemplare la scena del recital in chiesa o lo zoom sulla finestra spalancata nella stanza di Suzy, gli zoom che attraversano gli ambienti domestici come nel caso della sala da pranzo, per dare su un altro locale, e non ultimo lo zoom straniante che arriva a conclusione dei titoli di testa, e che partendo dal dettaglio del binocolo giunge a collocare la casa nel mezzo di un'isola in campo lungo). In questo senso possiamo parlare di un rigore registico che si scontra ben presto con il paradosso della messa in scena: luoghi e ambienti di fantasia, eccesso dei costumi, esasperazione degli stereotipi (il capitano di polizia e l'attaccamento al protocollo, il caposcout che crede di essere un marine, la coppia di avvocati intrappolata nei freddi codici professionali, l'autolesionismo adolescenziale, i bulletti redenti, la spietata operatrice dei servizi sociali, i tutori torturatori e via discorrendo). Il senso dell'assurdo in Wes Anderson si produce proprio da questa serie di incongruenze, talvolta è lo stesso rigore visivo a produrle; pensiamo alla scena della conversazione via radio tra il capitano Sharp e il tutore del piccolo fuggiasco Sam: al posto di un dinamico montaggio in parallelo delle due scene, subentra un più statico ma simultaneo split screen, nel segno di una regia che abbiamo definito rigorosa e che aggiungiamo, predilige ordinate inquadrature frontali in luogo di pose angolari. Dicevamo, la scena in questione mostra un dialogo i cui attori sono in posizione speculare, l'uno davanti all'altro, solo in due luoghi diversi divisi da un taglio verticale dell'inquadratura. L'immagine produce sin da subito una perturbante comicità, proprio in ragione di quella rigida simmetria che interessa la composizione. Non solo i due interlocutori sono uno di fronte all'altro, ma sono anche nella stessa posizione (con una mano poggiata su una gamba divaricata), per di più la pia assistente del capitano sullo sfondo pochi istanti prima mordicchia un panino con aria compita e imbarazzata, mentre sull'altro versante dell'inquadratura la tutrice del piccolo Sam è intenta a rassettare la cucina, nonostante la notizia della scomparsa del suo protetto.

Ma torniamo per un attimo all'inizio, proprio alla scena d'apertura: un incipit circolare, che come in molti casi illustri, è utile non solo a introdurre il testo, ma anche a creare una dimensione narrativo-formale a sé stante, proprio perché chiusa, e dunque un piccolo film nel film. Le proprietà di un incipit di questo genere risiedono proprio nella capacità di risultare “pezzo autosufficiente”, dunque parte compiuta, dotata di una sua fisionomia e insieme parte strutturale (protesi) del film stesso. I lunghi titoli di testa compaiono sulle immagini di una casa (un luogo circoscritto, un ecosistema) o meglio sul dipinto di una casa, che di lì a breve scopriamo essere la stessa casa che ospita il quadro (siamo quindi immediatamente proiettati in un gioco di duplicazioni che proseguiranno con il primo piano di Suzy armata di binocolo, provocazione visiva che moltiplica non solo il punto di vista ma lo stesso soggetto della visione), una casa, dicevamo, i cui inquilini vengono introdotti, o sarebbe meglio dire presentati, come singoli strumenti di una famiglia di fiati o di archi di un'orchestra. Precisamente un'orchestra che esegue una melodia di Purcell con delle variazioni di Britten. Moonrise Kingdom è essa stessa opera in perenne oscillazione tra melodia e variazioni. Gli scarti umoristici e le bizzarrie figurative si generano dalla continua tensione tra i valori geometrici della messa in quadro e le allegorie degli elementi scenici. La lunga carrellata laterale introduttiva, infatti, culmina nell'inquadratura frontale di una stanza ben ordinata, presumibilmente la mansarda, perimetrata da un ampio tappeto circolare, come a rimarcare la chiusura (dunque la circolarità) del prologo e il principio ordinatore di tutto l'impianto visivo, costellato di effetti cornice e di effetti di centratura (continui recadrage: la nicchia della fermata dell'autobus, la bacheca all'esterno della chiesa).

Nei quadri di Anderson ogni cosa è al suo posto, nel senso che ogni elemento occupa nello spazio la porzione che il testo stesso gli accorda: un esempio potrebbe essere un'inquadratura del prologo in cui Suzy si trova a occupare l'apice di una piramide la cui base è rappresentata dai tre fratelli, sdraiati sul tappeto circolare. In questo caso Suzy diventa il vertice geometrico del quadro (un quadro la cui austerità è fortemente ostentata e proprio per questo umoristico), ma anche il punto che più si distingue dalla base (i tre fratelli). Lo sguardo di Anderson prosegue con fare da entomologo, fino a scoprire ogni locale della casa e i modi in cui i personaggi ne agiscono lo spazio. Da questo momento è un succedersi “sinfonico” di carrellate e panoramiche, movimenti sinuosi da bacchetta di un direttore d'orchestra, che fanno scivolare lo sguardo lungo ambienti diversificati, come fosse l'occhio gigante di una bambina intenta a sbirciare le stanze della sua casa di bambole, una casa scoperta sulla “quarta parete”. Un procedimento che inevitabilmente fa tesoro di un montaggio interno al movimento del Rybczynski di Imagine, e che guarda curioso a quei Giardini d'Inverno di Ioseliani. Il cinema di Anderson si conferma, con Moonrise Kingdom, linguaggio ludico, gioco di avvicinamenti e distanziamenti, gioco rigoroso che riscopre la minuzie compositiva dell'illustratore, che stravolge la visione pur rinvigorendone i cardini (le sezioni geometriche), semplicemente riservando tanto al rigore quanto all'anomalia la stessa forma, composta e sgargiante.

 


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