Mary PDF 
di Piervittorio Vitori   

In Terrasanta si sono appena concluse le riprese di "This is my blood", film sulla vita di Cristo che attinge ai vangeli apocrifi: mentre il regista e protagonista Tony Childress torna a New York, l'interprete femminile, Marie Palesi, turbata dall'esperienza nei panni della Maddalena, decide di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel frattempo l'anchorman Theodor Younger, titolare di un programma televisivo che si propone di approfondire la figura di Gesù, è in crisi con la moglie incinta. All'insegna dell'indagine sulla figura divina, i tre personaggi sono destinati ad incrociarsi.

Ha stupito molti, quest'ultimo Abel Ferrara: critici e spettatori, pur divisi dal giudizio complessivo, non hanno fatto a meno di notarne quello che qualcuno ha perentoriamente definito "ottimismo". Il termine è senz'altro ben speso se ci si ferma al piano strettamente narrativo, ma rischia di rivelarsi fallace nel momento in cui si tenta di conciliarlo al sovrasignificato rincorso dal regista. Sarebbe più giusto, a questo punto, parlare di utopia. L'utopia, secondo la nota definizione di Eduardo Galeano, è come l'orizzonte: "Cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: serve per continuare a camminare". E camminare, o comunque compiere un percorso, è proprio ciò che fanno i due personaggi principali del film, Ted e Marie, il cui dinamismo è chiaramente simboleggiato in un caso dalle immagini del tunnel e nell'altro da quelle della traversata in barca. E il fatto che alla fine raggiungano il loro orizzonte, trovando il rapporto con il divino nella capacità di donarsi agli altri, può indurre a parlare di ottimismo.

Non riesce però a compiere lo stesso percorso Tony, né, cosa più importante, vi riesce il regista, almeno non completamente. Dopo aver sostenuto, attraverso il personaggio del Cristo di "This is my blood", la necessità di uscire da sé per porsi al servizio degli altri (si veda l'immagine di Gesù che si inginocchia per lavare i piedi dei suoi discepoli), Ferrara fallisce nel "sommo" tentativo a causa di una struttura a tratti oscura, che lascia emergere un senso non particolarmente originale, giacché tutto sembra poter essere ricondotto ad un mero auspicio di fratellanza. Il piano metacinematografico in particolare risulta decisamente ostico, con le battute affidate ai personaggi del Cristo e della Maddalena che faticano a tracciare una parabola chiara e coerente. Quanto si può credere, poi, al Gesù interpretato da un regista-attore che Ferrara ci presenta come l'esatta negazione, nel suo egocentrismo, dei precetti enunciati? Di contro è coerente fino quasi alla monodimensionalità la Maddalena/Marie di Juliette Binoche, il personaggio deputato a piantare la sua bandiera proprio sulla linea dell'orizzonte.

Appare quindi chiaro come, tra questi due estremi, il personaggio che fa da sponda allo spettatore sia quello interpretato da Forest Whitaker, che non a caso, fra i tre, è quello che presenta una maggiore sfaccettatura: ritroviamo in lui il dubbio, la colpa e un'incapacità di comunicare con Dio che man mano diviene tentativo di giungere a questa comunicazione. Soprattutto, ritroviamo associato a Ted il dolore, un dolore che può essere vissuto in prima persona (l'angoscia per il figlio, ma anche l'aggressione all'automobile) ma di cui il personaggio è anche semplicemente testimone impotente (le immagini dei conflitti che passano più volte sugli schermi vicino a lui). E il fatto che proprio il personaggio "depositario" del dolore abbia un nome che significa "dono di Dio" autorizza l'idea che Ferrara voglia proporci il dolore come una componente ineludibile dell'esperienza umana, una componente, azzardando solo un po', addirittura fondamentale sulla strada che ci separa da Dio. Emerge qui una tensione verticale, che sembra percorrere più momenti della pellicola: l'ascesa al divino passa per la discesa nel dolore, una discesa che può essere semplicemente metaforica (l'"abbassamento sociale" di Marie, che rifiuta la vita dorata di New York preferendole l'umile vita della pellegrina) ma anche esplicitata visivamente, laddove - oltre a Mary/Marie, alla sua discesa nel sepolcro, dove pensa di trovare le spoglie del Cristo, alla sua fuga giù per le scale dopo l'attentato - ritroviamo Ted e il suo sguardo che nella nursery si abbassa verso il figlio, cioè il simbolo appunto del suo dolore.

E a questo proposito non si può tralasciare di mettere in evidenza un altro tema centrale del film, quello del rapporto tra padre e figlio. Nella conciliazione tra le due figure, intese nel senso religioso di Dio e uomo, sta il carattere rivoluzionario del messaggio dei vangeli apocrifi: Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, cosa che ci rende figli suoi non meno di Gesù (ritorna quindi l'idea della comunione di umano e divino su uno stesso piano, un piano che è quindi orizzontale, in contrapposizione alla citata verticalità del dolore). Ma il ricongiungimento con il padre non è semplice né indolore: "Non toccarmi, donna, giacché non sono ancora salito al padre", dice il Cristo di "This is my blood" alla Maddalena. D'altra parte, la punizione di Ted per le sue colpe rischia di essere la morte del figlio e quindi il suo mancato ricongiungimento con il padre (e si noti come il bambino è "a immagine e somiglianza" del padre, non della madre). Se però alla fine Ted, pur sperimentando il dolore su di sé, non viene punito, la punizione tocca Tony. Confondendo il film con la realtà, egli confonde la metaforica ascesa verso Dio con la propria pretesa superiorità morale ed artistica: ce lo suggerisce chiaramente la scena finale, in cui il regista (creatore per antonomasia), salendo, si asserraglia nella cabina di proiezione, il punto più alto del luogo, in cui la sua attività dovrebbe trovare un riscontro concreto. Tony vede quindi Dio in se stesso, rispecchiato nel proprio egocentrismo: intitola il proprio film "This is my blood", ma dimentica la seconda parte della frase, e non è in grado di offrirsi in sacrificio per gli altri, a differenza di Ted e Marie.

In Mary non mancano insomma spunti e temi forti, ma la sensazione globale è quella di un esercizio un po' autocompiaciuto in cui i diversi fili sono troppo attorcigliati tra loro per dare alla trama il respiro di cui avrebbe bisogno. E a cancellare questa idea non bastano la perizia tecnica della messa in scena né la bella prova degli interpreti.

 


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