Fuoco cammina con me – Origine e motivi di una delusione vincente PDF 
Filippo Magnifico   

Di solito si è portati a ricordare meglio le delusioni, tendendo ad archiviare le vittorie come semplici fasi di un percorso prestabilito. Ovviamente non c’è sensazione più sgradevole. Donare tutte le proprie forze ad un progetto, qualunque esso sia, è una cosa che regala soddisfazioni direttamente proporzionali al successo riscontrato. David Lynch lo sa bene. Nel 1992, quando Fuoco cammina con me fu presentato al Festival di Cannes, i giornalisti, con un parere quasi unanime, bollarono il film come un’opera non riuscita, una volgare manovra commerciale finalizzata a sfruttare un successo, quello della serie televisiva Twin Peaks, sfumato forse troppo presto. Parole che per il regista devono essere pesate come un macigno, risolvendosi in una dolorosa somatizzazione difficile da dimenticare [1]. Ancor più dolorosa perché questo progetto, nato per raccontare gli ultimi sette giorni di vita della giovane Laura Palmer, fu spinto da un bisogno ben preciso, certamente lontano dal semplice sfruttamento di personaggi entrati nell’immaginario comune di milioni di spettatori. E’ stato Lynch stesso a spiegarcelo, dimostrando il suo attaccamento nei confronti di una storia, trascurata per cause di forza maggiore (le riprese di Cuore Selvaggio), ma mai dimenticata: “Alla fine della serie mi sentivo giù. Non mi risolvevo a lasciare il mondo di Twin Peaks”[2]. Un’insoddisfazione dovuta in gran parte alla frettolosa conclusione del serial, causata da un calo di ascolti che ha portato all’abbandono di una prevista terza stagione.

Un’opera dettata dal cuore quindi, concepita (principalmente) come sfogo personale, ma coerente con se stessa e legata, schiena contro schiena, a quegli episodi andati in onda negli anni ’90. Occorre però fare delle distinzioni. Da sempre Televisione e Cinema sono stati antagonisti, ambienti all’interno dei quali vigono leggi e libertà diverse. Quello che, al tempo, la stampa non è riuscita a vedere è quel marcato confine che separa il lungometraggio dal suo corrispettivo catodico. Una forzatura dettata da inevitabili esigenze di tempo, ma in un certo senso voluta. Fuoco cammina con me non è televisione, “è l’opera stessa a liquidare ironicamente la questione, fin dalla sequenza dei titoli di testa. […] All’improvviso una sbarra di ferro fa esplodere il tubo catodico, mentre si leva un urlo terrificante”[3]. Un incipit inequivocabile, ma questa lontananza è insita nel progetto stesso, fa parte di lui. L’intero telefilm, infatti, ruota attorno ad una figura assente, quella di Laura, la giovane liceale uccisa. Il lungometraggio, al contrario, si basa sulla sua presenza. Questo porta ad un semplice ragionamento: Se c’è Laura, non è Twin Peaks. Potrà seguirne le linee guida, appoggiarsi sui suoi temi portanti, ma non potrà mai essere la stessa cosa.

Per questo aspettarsi un “ritorno alle origini” è il principale sbaglio che si può compiere di fronte a quest’opera. Sarebbe più giusto guardarla con la consapevolezza di chi ammira i negativi di un bel servizio fotografico. Le ossessioni di Lynch, vero e proprio marchio di fabbrica, continuano ad essere presenti: i boschi, il caffè, le insistenti inquadrature del ventilatore a soffitto di casa Palmer, per citarne alcune. Addirittura il pianto, motivo ricorrente del primo episodio, si ripete ciclicamente all’interno del film, aumentando quell’aura oscura che, da un certo punto di vista, avvicina e allontana queste due storie speculari. I tempi dilatati, tipici del regista e quel continuo accumulo di tensione, pronto ad esplodere più volte durante la narrazione, rendono l’opera più cupa. E’ stata soprattutto questa tendenza a sottolineare i momenti bui ad innescare l’insoddisfazione del pubblico più affezionato. E’ vero, a differenza degli episodi andati in onda negli anni ’90 si nota una mancanza di umorismo che, soprattutto nella seconda serie, aveva rappresentato una sorta di leit motiv. Ma è vera anche un’altra cosa. Dei trenta episodi, compreso il Pilot, che hanno composto la serie, quelli diretti da Lynch sono solo sei e, bene o male, sono caratterizzati da un‘atmosfera più tesa e inquietante.

Sappiamo benissimo che la serie di Twin Peaks ha avuto un’evoluzione simile a quella di una Jam Session. La trama si è sviluppata lungo la lavorazione. Molti personaggi, come Bob, l’uomo senza un braccio e Maddy, la cugina identica di Laura, non erano previsti. L’abbandono del set da parte del regista poi, ha contribuito ad allontanare la storia dal progetto originario, tanto che si potrebbe dire che se David Lynch fosse stato più presente, il plot avrebbe sicuramente avuto un’evoluzione differente[4]. Il lungometraggio, da un certo punto di vista, riprende gli episodi da lui diretti (almeno nei temi portanti), rendendo questa Twin Peaks coerente con quella del telefilm e sottolineando quella duplice essenza che muove la storia. Coerentemente con questo pensiero, si potrebbe dire che Fuoco cammina con me non è altro che il lato oscuro di una medaglia, la cui parte buona è rappresentata dalla serie televisiva. Un’ipotesi che certamente non stupisce. Le ambivalenze hanno sempre affascinato il regista americano, trovando terreno fertile nelle sue storie[5]. Questo lungometraggio e il suo equivalente catodico, non sono altro che la conferma di tale concetto e contribuiscono a sottolineare l’importanza che la dualità ha avuto nella sua filmografia. Per questo è giusto dire che, all’interno del progetto Twin Peaks, è racchiuso tutta la poetica di questo cineasta e definire Fuoco cammina con me un‘opera incompiuta sarebbe solo un grossolano errore.

Proviamo ora ad analizzare il film. Oltre che per un presunto allontanamento dai temi trattati in passato, questo lungometraggio fu poco apprezzato per la sua approssimazione. Ma è davvero possibile definire Fuoco cammina con me un’opera incompiuta? Ogni film di Lynch si può definire approssimato. Il suo è un cinema votato principalmente all’estetica, che vive di un vero e proprio feticismo per la messa in scena, il più delle volte evidenziata tralasciando le più comuni regole di linearità narrativa.

Fermo restando che Fuoco cammina con me è forse tra le opere più lineari del regista, come è possibile accusare di incompiutezza il lavoro di un autore che ha sempre dedicato il suo cinema alla frammentarietà? In questo caso sarebbe più opportuno parlare di maniera e accettare, senza troppi dubbi, quella che si presenta a tutti gli effetti come una poetica, un modo di esprimersi assolutamente personale e coerente con se stesso.
Da questo punto di vista il prequel di Twin Peaks è forse una delle opere più intime del regista. Al suo interno possiamo ritrovare concetti base di un’estetica che è riuscita ad affermarsi negli anni e conferme di ossessioni, anch’esse tipiche del regista, già conosciute. Il tema del doppio, già accennato in precedenza e presente nel telefilm, identificabile nella raffigurazione di una cittadina nettamente divisa tra giorno e notte (come la Lumberton di Velluto Blu). Tema che nel lungometraggio traspare anche attraverso inquietanti rappresentazioni, come quella del sogno di Cooper. Persa nella dimensione onirica la figura dell’agente speciale assume una doppia rappresentazione. Quella bloccata nel televisore e quella presente nell’ufficio di Gordon Cole.

Cosa che sembra voler insistere sulla differenza formale tra televisione e film. Esistono due dimensioni di Twin Peaks, quella televisiva e quella cinematografica ed entrambe sono inglobate l’una nell’altra.  Allo stesso modo esistono due Cooper. E’ così che finisce il serial ed è un altro sogno a ricordarcelo, quello di Laura. La povera Annie, presagio di un prossimo futuro, riferisce alla giovane liceale che “Il buon Dale è nella loggia”. Quello malvagio infatti si trova fuori, ma tutto deve ancora accadere. La stessa Laura non è altro che l’emblema vivente della duplicità, rappresentazione di un Yin Yang su cui sembra poggiarsi l’intero schema narrativo.

Quando si parla di Twin Peaks, si parla di David Lynch. Questo concetto, cui abbiamo accennato più volte durante questo percorso, non deve mai essere dimenticato. L’opera stessa è un concentrato di vita passata, autobiografica per diversi aspetti, semplicemente allusiva per altri. Un attaccamento riscontrabile anche nell’estrema cura con cui ogni scena è stata concepita. Un’attenzione per il dettaglio tipica del regista, ma che all’interno di questa storia sembra assumere un valore assoluto, rendendo ogni scena un pezzo a se stante, ma perfettamente incastrato in un ingranaggio funzionante nella sua linearità. Se è vero che la quasi totalità delle due ore di proiezione sono dominate da un’atmosfera cupa, è vero anche che il disagio provocato da alcune scene riesce a superare la razionalità, caricandosi di una tensione spesso immotivata. Come immotivato è l’atteggiamento di tutti i personaggi che si muovono negli ambienti. O sarebbe meglio dire che non si muovono. Se c’è una cosa che colpisce di questo film, è proprio l’immobilità in cui è avvolto. Una sorta di innaturalità spaziale che dimostra una volontà ben precisa: Quella di dominare ogni ambiente, disponendo persone e profilmico secondo una logica chiara.

Da questo punto di vista non è sbagliato accostare il nome di Lynch a quello di Stanley Kubrick. Entrambi i registi infatti, provenendo dalle arti visive, hanno sempre saputo dare il giusto peso alla dimensione ambientale, sfociando talvolta in una evidente artificiosità. Un’artificiosità finalizzata al perturbabile, che per certi versi può ricordare il cinema espressionista, in quanto “effettua una sintesi radicale tra immaginario e stile, realizzando attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena, una forma espressiva di particolare intensità”, e che – motivo ricorrente di tutta una filmografia Lynchana – vede muoversi al suo interno “personaggi che tendono disperatamente verso un obiettivo senza raggiungerlo, o che violano le leggi e le regole del vivere in nome di un ideale o di un’ossessione da cui non possono liberarsi”[6].

Un omaggio al grande cinema tedesco che vive anche attraverso due maschere tragiche. Quelle che, per pochi istanti, appaiono sul volto di Laura e di Leland, “impregnato di cerone bianco, con la bocca e gli occhi truccati pesantemente di nero, […] un’immagine di grande tensione, capace di toccare insieme le tonalità dell’orrore e del distacco, della disperazione e della crudeltà”[7] e che sembra anticipare, nella sua raffigurazione, il look di Robert Blake, Mistery Man di Strade perdute. La spazialità di Fuoco cammina con me è dominata da una figura ricorrente, una disposizione degli elementi scenici (e non solo) impossibile da ignorare. Come accennato in precedenza si tende a dare rilievo all’immobilità dei personaggi, ma anche la loro collocazione sembra dettata da calcoli ben precisi. Se solitamente gli attori sono sistemati ai lati della inquadrature, come a volerne delimitare lo spazio[8], non è raro trovare al centro una terza figura, distante dalle altre come a voler delineare gli estremi di un ipotetico triangolo. Una disposizione che culmina in una sorta di coreografia all’interno di una scena precisa. Quella in cui Leland Palmer rimprovera la figlia a causa di un’unghia sporca. C’è una precisa proporzione che domina la scena e che non si spezza nonostante alcuni spostamenti da parte degli interpreti. Se in un primo momento quel triangolo virtuale è delimitato nell’inquadratura da Laura sulla destra, il padre al centro e la madre sulla sinistra, nel momento in cui Leland si sposta, lasciando il suo posto, anche Sarah fa la stessa cosa.

Entrambi occupano i corrispettivi spazi, mantenendo intatta quell’armonia. A questo punto è lecito pensare che questa figura non sia solo una coincidenza, ma a cosa è dovuta? Tutto sembra condurre al significato che il triangolo assume nella scienza alchemica. Esso infatti è il simbolo del fuoco. Si tratterebbe a tutti gli effetti di un messaggio subliminale quindi, manifestazione di quella fiamma che non cammina solo nel titolo ma permea virtualmente ogni frame, attraverso una trinità occulta di cui farebbero parte Bob, l’uomo senza un braccio e il Nano della Red Room (risulta singolare inoltre notare come la pronuncia di Red Room ricordi molto quella di Redrum, cioè Murder, omicidio, scritto al contrario, cosa che rimanda al bizzarro modo di parlare tipico della stanza in questione). Solo una supposizione, ma indubbiamente affascinante.

Ed è proprio all’interno di quella stanza rossa, conosciuta anche come Loggia Nera, che si conclude questo lungo prologo. Subito dopo averci mostrato quell’omicidio tanto atteso, procrastinato lungo la narrazione e rivelatoci in tutta la sua ferocia, tramite un gioco di montaggio che per certi versi ricorda il ben più famoso delitto cinematografico di Psycho. Solo uno dei tanti intermezzi metacinematografici della pellicola, che sembra immersa in una realtà filmica continuamente evidenziata – quasi a volerla spettacolarizzare – tramite un uso innaturale delle luci, puntate sui volti e sugli ambienti in modo tale da mostrarli in tutta la loro artificiosità. Un’esaltazione che culmina in una scena ben precisa, che anticipa l’omicidio in questione. Mentre Leland trascina le due povere ragazze verso il loro destino, i contorni delle figure, immersi nel buio del bosco, sono evidenziati da un faretto continuamente mosso e puntato con insistenza sui loro volti, quasi a voler sottolineare la presenza di una quarta figura che li precede, il cui unico compito sarebbe quello di rendere ben visibile la scena.

Un delitto cinematografico per eccellenza dunque, commesso principalmente per il pubblico. Un’estrema rappresentazione capace di far ribaltare ogni precedente certezza, portandoci a pensare che quei pesanti drappeggi che incorniciano la Loggia Nera, siano in realtà il sipario di un ipotetico teatro. Resta solo da capire cosa sia quel mondo rappresentato al suo interno. Estrema concezione di cinema, o metafora del suo pubblico di riferimento?


NOTE

[1] “Stavo proprio male, tanto che il dottore dovette venire nella mia stanza d’albergo nel cuore della notte. E la mattina successiva avevo la conferenza stampa: quando entrai là dentro mi sentivo a pezzi, e non fu affatto divertente” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[2] Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[3] Riccardo Caccia, David Lynch.
[4] “Se Mark (Frost) e io avessimo lavorato insieme le cose avrebbero preso un’altra piega” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[5] “La confusione dentro/fuori è…in realtà non l’ho mai detto, ma per me la vita e il cinema hanno a che fare proprio con questo” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[6] Paolo Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.
[7] Paolo Bertetto, Il gabinetto del dottor Caligari.
[8] “Adoro i luoghi delimitati entro cui guardare” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.