127 ore PDF 
Andrea Mattacheo   

Le peggiori caratteristiche del cinema di Danny Boyle trovano in 127 ore un singolare punto di incontro, tale da renderlo un film significativo (nel male, si intende) all’interno di un percorso registico sfuggente e ambiguo, spesso oggetto di un’attenzione eccessiva ed ingiustificata. La storia (vera, ma ha qualche importanza?) di Aron Ralston, avventuroso, quanto sventurato giovane dedito agli sport estremi, permette a Boyle di esporre tutti insieme i limiti del suo lavoro di costruzione narrativa e messa in scena. Un fare cinema, quello del regista inglese, qui, più che altrove, fastidiosamente scontato, retorico, piatto, che cerca di nascondere dietro la velocità del montaggio il vuoto di una visione del cinema, e cosa ben più importante del mondo, troppo semplicistica, riduttiva, priva di un qualunque spessore. E se in altre occasioni (Trainspotting, Sunshine e in parte anche Slumdog Millionaire), grazie alla forza dei soggetti, questa inconsistenza poteva rimanere come una sgradevole sensazione sottopelle, in 127 ore trova un’espressione chiara e limpida, incarnandosi completamente nel racconto.

L’“inno alla vita” di Boyle inizia con bassi a tutto volume, immagini ipercinetiche e folle in delirio allo stadio. La vita si trasforma da subito in spettacolo, in ciò che si realizza esclusivamente in se stesso (1) e non ha rapporti che con la superficie delle cose. Il protagonista del film è un individuo che riflette fedelmente la produzione delle cose (2), un corpo unico con la sua bici ultraleggera, i suoi navigatori satellitari e le sue videocamere. Un uomo ossessionato dalla rappresentazione di sé che appaga nella (s)vendita del proprio io attraverso filmati postabili su internet. I suoi video non assumono la dimensione resistenziale della testimonianza nemmeno nel momento di massima prossimità con la morte, rimanendo sempre e soltanto esposizione narcisistica. Aron Ralston è dal primo all’ultimo minuto un personaggio superficiale e irritante, sia quando esibisce il proprio nulla flirtando con due ragazze, sia quando trova il coraggio di tagliarsi il braccio per fuggire verso la libertà: sempre lo stesso insopportabile prodotto di una società in cui dominano il consumo e l’immagine. La wilderness, il cui cuore selvaggio ed estremo rimane inalienabile malgrado il progresso tecnologico, non dà luogo dunque ad alcuna redenzione, e la rinascita di Aron ha radici nella carne e nell’autentico solo nell’apparenza del gesto. Il modo in cui Boyle sceglie di mostrarcela non è poi che spettacolo fine a se stesso, non è che immagine priva di profondità. Le forze che spingono James Franco a lottare per tornare a vivere stanno perfettamente incorniciate in cartoline di quotidianità formato televisivo. Che rappresentino il dolore o  la gioia, la speranza o la delusione, sono tutte ugualmente coperte da una patina luccicante: non solo poco credibili ma anche assolutamente irritanti. Così come è irritante ogni scelta fatta da Boyle in sede di regia, dal sopracitato montaggio schizofrenico – che non prova nemmeno a produrre una qualche sfumatura di senso – alle ambizioni gore nel momento dell’amputazione, coronate da scariche elettriche in corrispondenza della rottura dei nervi. Quanto di più retorico e ricattatorio si possa immaginare.

Se la missione di 127 ore è quella di intrattenere l’obiettivo è centrato, non c’è che dire. Facendo leva sulla pulsione voyeuristica che accompagna la visione cinematografica, il film riesce infatti a creare una certa aspettativa riguardo alla risoluzione della vicenda di Ralston. Questo, però, a patto che si accetti un ricatto estetico ed insieme etico, diretta conseguenza della scelta di 127 ore di ridurre programmaticamente la sofferenza e la dolcezza della vita ad una banale rappresentazione di superficie. Se si sceglie invece, saggiamente, di rifiutare questo ricatto non si può che uscire dalla sala infastiditi oltre che annoiati.

Note:
(1) G.E. Debord, La société du spectacle, 1967, Ed. It. La società dello spettacolo, Massari editore, 2004 p.47.
(2) Ibidem.

TITOLO ORIGINALE: 127 Hours; REGIA: Danny Boyle; SCENEGGIATURA: Simon Beaufoy, Danny Boyle; FOTOGRAFIA: Enrique Chediak, Anthony Dod Mantle; MONTAGGIO: Jon Harris; MUSICA: A.R. Rahman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 94 min.

 


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