Soffocare: il cinema ha fame di storie PDF 
Aldo Spiniello   

Il cinema ha fame di storie. Siamo noi spettatori a pretenderle, del resto. Un bisogno innato, irresistibile, che porta a ricercare ovunque il racconto, quella traccia che possa rappresentarsi ai nostri occhi come il segno sicuro di un universo riconosciuto. A cosa servono le storie? A ricreare il mondo, probabilmente. A definire nella salda architettura di una struttura narrativa le oscure variabili del reale. Ogni racconto indica una possibile traiettoria di senso e aggiunge un tassello a un’immensa e pur sempre fallimentare mappatura dell’esistente. In fondo, ogni storia si aggiunge alle altre nel folle tentativo di fondare una geografia della vita. E The Imaginarium of Doctor Parnassus, l’ultimo film di Terry Gilliam presentato a Cannes, sembra essere proprio lo specchio fedele di questa inarrestabile proliferazione dei miti, le cui radici affondano nei vissuti e nei mille immaginari possibili, traendo e restituendo nutrimento e linfa in un moto circolare inarrestabile. "Le inesauribili energie del cosmo si manifestano nella cultura umana proprio attraverso il mito", diceva Joseph Campbell. E, di rimando, Gilliam svela la sua speranza: finché si continueranno a narrare storie il mondo non potrà crollare. Splendida visione di un universo le cui fondamenta, seppur in perenne movimento, reggono sulla Storia, su ciò che accade e su ciò che si racconta. E l’immaginario è lo spazio al tempo stesso intimo e collettivo dove si agitano e prendono forma queste storie, l’arena in cui combattono le pulsioni più profonde, i nostri angeli e i nostri demoni. Ed è proprio in questo spazio che vive il cinema, schermo in cui l’immaginario si proietta e riflette, facendo mostra di sé, luogo abitato da presenze/assenze fantasmatiche che, richiamate da una "visione", si materializzano per un istante davanti ai nostri occhi. In The Imaginarium of Doctor Parnassus Heath Ledger è lo spettro che si aggira e attrae lo sguardo, ambisce ad essere il cuore emotivo della vicenda, di tutte le vicende narrate, nonostante il corpo e il volto siano venuti meno, siano da sostituire ogni volta, ad ogni nuovo ingresso nel sogno. Gilliam, come se ce ne fosse ancora bisogno, compie il suo atto di fede: il cinema trova il suo motore e il suo fine nell’immaginario.

In questo senso, il percorso tracciato da Gilliam sembra complementare a quello seguito da Shyamalan, i cui film vivono sempre di un doppio movimento: dal reale al simbolico e viceversa. Un cinema, quello del regista di origine indiana, che assomiglia sempre più all’utopia fuori dal tempo di The Village, inseguendo il sogno impossibile di un’organizzazione significativa dello spazio (e quindi della messa in scena), di una struttura sicura, seppur consapevolmente imperfetta, in cui disseminare ad ogni passo i segni che ridanno senso all’ignoto, gli appigli cui aggrapparsi per sfuggire alla paura. Sforzo vano, forse, in quanto non si può rinchiudere un universo oscuro nel rigore matematico di una formula. La morte, come in E venne il giorno, è un vento che soffia dal fuori campo al campo, occupando di sé ogni spazio immaginabile, ogni possibile rifugio. Ma alla consapevolezza deve far seguito una sacra illusione, lo slancio incosciente. Occorre, ancora una volta, un atto di fede. E probabilmente l’incompreso Lady in the Water ne è la perfetta dichiarazione: riflessione sulla mitopoiesi, sulla genesi e sul valore salvifico delle storie, che sembra uscire direttamente dalle pagine di Campbell e de Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. In Shyamalan il mito è il punto di incrocio tra l’esistenzialismo e la metafisica, un mantra che prova a rimettere in ordine il mondo e a restituire movimento alla vita.

Terry Gilliam e M. Night Shyamalan, pur nelle loro differenze, testimoniano compiutamente di un bisogno vitale del cinema di nutrirsi di storie e di raccontare. Ma da dove nascono queste storie? Ovunque si potrebbe dire...dalla realtà, dall’immaginazione, dalla letteratura, dal passato, dai fumetti, dalla propria vicenda personale. Il punto è che, ovviamente, il cinema ogni volta è posto di fronte alla necessità di un confronto con la propria fonte, ed è costretto in qualche modo a scegliere il proprio atteggiamento. Sui rapporti tra cinema e letteratura, ad esempio, si sono riempite migliaia di pagine. Ma, probabilmente, non interessa tanto una discussione teorica e generale, quanto una possibile, parziale riflessione sui casi concreti. Magari seguendo proprio le linee del discorso di Gilliam e Shyamalan. E l’occasione potrebbe essere proprio un film come Soffocare, esordio dietro la macchina da presa dell’attore Clark Gregg, commedia amara e stralunata, tratta dall’omonimo romanzo del 2001 di Chuck Palahniuk (titolo originale Choke). Alla base la vicenda di Victor Mancini, studente di medicina fallito, sessuomane impenitente, piccolo imbroglione da strapazzo, che, ogni volta che si trova a pranzo in un ristorante, finge di soffocare per farsi salvare da qualche povero diavolo e racimolare qualche dollaro. Una piccola "attività" collaterale al lavoro di figurante storico che permette a Victor di mantenere la madre in una costosa clinica psichiatrica. Soffocare è il secondo romanzo di Palahniuk adattato per il grande schermo, dopo il controverso Fight Club di David Fincher. Il che suona po’ strano, considerato che Palahniuk, classe 1962, è  tra gli scrittori più fortunati e conosciuti della sua generazione. E suona ancor più strano pensare che due film così diversi siano stati tratti dallo stesso autore. Ma tant’è. Il punto è che lo stile "sopra le righe" e il cadente e straniante universo contemporaneo di Palahniuk possono trovare una singolare consonanza con l’estro visivo di Fincher, espressione di una sorta di sguardo patologico e ambiguo sul mondo (non è un caso che Fincher racconti sempre di personaggi malati: serial killer, depressi, bambini nati vecchi…). Anche se il rischio sempre incombente è quello di un film completamente fuori controllo. Diverso è il discorso per un regista alle prime armi come Clark Gregg, il quale mostra di puntare su quelli che, sulla carta, sono i suoi punti di forza: la sceneggiatura e il lavoro sugli attori.

In effetti, Soffocare sembra una sorta di sinossi, un riassunto che compendia e ripropone alla lettera le vicende del romanzo di partenza, cercando di porne in risalto tutte le possibili implicazioni di senso. L’impossibilità di adattarsi a una società che nei suoi rigidi meccanismi di funzionamento denuncia una follia, un’assurdità che da latenti si fanno sempre più palesi. E poi, più in profondità, il rapporto madre/figlio, la paura di amare, l’incapacità di immaginare un orizzonte di felicità, aldilà dei desideri e dei bisogni imposti. Clark Gregg tenta di rendere al meglio gli aspetti più sconvenienti e crudi delle pagine di Palahniuk, prova a compensare l’impossibilità di mostrare l’oscenità e le perversioni sessuali con le armi del linguaggio scorretto, delle situazioni sconvenienti e grottesche, dei toni stralunati e paradossali. Ma le immagini, nella loro piattezza, nella loro staticità a volte disarmante, si dimostrano alla lunga incapaci di restituire la fisicità prorompente dello stile dello scrittore. È come se il film non provasse nemmeno a ricreare il mondo, accontentandosi di ricreare un libro. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una specie di lunga nota a margine, un testo di secondo livello che, ad ogni istante, si scopre imprigionato in un immaginario altrui, senza aver la forza di rimodellarlo per donargli autenticità. È nel rapporto con il testo letterario di partenza che Soffocare vive il proprio fallimento. Rimane lo scheletro del racconto, l’adesione al significato, ma manca quel processo di assorbimento e rielaborazione che aggiunge una nuova, un’altra vita alla storia.

La nostra fame resta. E il cinema è stretto in un limbo che a tratti sembra il correlativo delle paure e delle agonie del povero Victor, della sua crisi d’identità forzata, ma che, d’altra parte, è il segno di un’incertezza forse fatale tra il richiamo dell’immaginazione e quello del reale. Eppure, nonostante tutto, rivela ancora una volta uno dei suoi segreti irresistibili. Sono i corpi di Sam Rockwell, Anjelica Huston, Brad William Henke a ridonare volume e spessore alle cose, a rendere, seppur per brevi attimi, concrete e palpabili le emozioni e le passioni. Restituiscono carne e sangue alle immagini, come in un miracolo eucaristico. Sacro mistero del cinema.

 


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