Ispirato al romanzo del Premio Pulitzer Cormac McCarthy il nuovo film dei fratelli Coen conferma a chi ancora si sottraeva al beneficio del dubbio un’originalità rara nella cinematografia contemporanea. L’autore si è fatto interprete dei cambiamenti di una parte del mondo già esplorata dal maestro della ferocia selvaggia Peckinpah, la frontiera messicana, confine più visibile che labile con i superiori Stati Uniti. I Coen hanno saputo magistralmente gettare un ponte tra la loro opera e quella letteraria riuscendo a evitare una cinica e compiaciuta presa d'atto di una realtà negata. Se l’impianto narrativo ci riconduce per invitate esplosioni di violenza al loro apprezzatissimo Fargo, l’agghiacciante scenario della morte raggiunge la sua iperbole in una cifra stilistica sui generis, il nuovo western. Ma questo dei Coen non è un paese per vecchi cowboy, piuttosto il degno simulacro per giovani killer psicolabili. Il western, già ricorrente negli ultimi cult tarantinati dei cinefili in erba, in quelli snobbati snaturatamente come Le tre sepolture e, ancora, in quelli più apprezzati come I segreti di Brokeback Mountain, non è più solo stile o formalismo: mantiene inveterato un machismo puro e attraente che ne inficia la poetica nel segno rosso del sangue che sgorga. Il genere s’arrovella e s’arroventa nei nuovi esiti antiepici e rivoli fumettistici in cui sempre più labile è la linea d’ombra tra il buono e il cattivo. Esso risucchia i luoghi e i tempi delle sue carneficine. I dialoghi, mantenuti costantemente sul filo di un’ironia crudele, rappresentano le divagazioni contaminate, mai convenzionate, dei cineasti più decostruzionisti della nuova Hollywood. La follia lynchana che caratterizza gli interpreti di una cattiveria ferina e quanto mai truculenta, trasuda la forza di un cinema che si schianta con primigenia energia contro le previsioni dei suoi spettatori e catalizza vorace le ansie postmoderne addebitate sul conto dei sentimentali inalberati. Non è il senso di vendetta dell’attuale Burton ad azionare le secche coreografie della violenza né un senso di rivalsa provinciale com’era stato il pretesto del classico Psycho. Le anime nere del film, i corrieri della droga e della morte, che ricordano gli antieroi di The addiction, sono spietati e feroci. La loro etica è il possesso. La loro modalità è l’assassinio, tramite armi micidiali e sorprendenti, di chiunque si metta tra loro e la loro roba. Le apparenze non hanno parvenze perché la realtà è quella che affonda tanto in una zona desertica in cui tra camioncini, cadaveri agonizzanti, eroina e dollari il rude cacciatore Llewelyn crede d’aver trovato la sua fortuna, tanto nella stanza di una vittima innocente di una scelta - gretta- sbagliata. Il killer sanguinario Anton Chigurh, un Javier Bardem insuperabile che mette a segno una delle migliori interpretazioni della storia del cinema mondiale, è il testimone perfetto di un fatalismo sanguinario che, nel flemmatico inseguimento dei suoi rigidi canoni, immorali, si presta a una riflessione perfino più tragica. La sola flebile scintilla di umanità è effusa dallo sguardo malinconico di un vecchio sceriffo, il tragico Tommy Lee Jones, unico superstite del Crocevia della morte di un uomo contro tutti, epilogo crepuscolare che muove a pietas lo spettatore e il critico. Sua la responsabilità intrinseca del film, una tematica profondamente dolorosa: l’inutilità della forza del passato, della tranquillità e della normalità sottratte adesso da tensioni e inquietudini che abbozzano un prepotente nichilismo che ci fa lo sberleffo, sinistro.
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