Captive PDF 
Giulia Palmieri   

Philippine Horror Story. Potremo ribattezzarlo così il film di Brillante Mendoza che nel 2012 ha sfiorato l’Orso d’Oro a Berlino. Un docu-thriller liberamente ispirato ai rapimenti di Dos Palmas che tra il 2001 e il 2002 resero il sud delle Filippine uno dei luoghi più inospitali per il turismo internazionale. Al tempo, il World Trade Center era ancora in piedi e Osama Bin Laden era soltanto un nome. Al suo servizio, Abu Sayyaf, era uno dei tanti leader separatisti che in quel periodo trovavano la loro principale occupazione nel saccheggio di numerosi resort sull’isola di Palawan.

L’arrembaggio in soggettiva a dir poco teatrale che apre la pellicola serve infatti a proiettare immediatamente il pubblico tra gli ostaggi, portandolo da uno stato di calma apparente ad un’improvvisa e palpitante inquietudine. Un centinaio di persone vengono sballottate e interrogate prima su una zattera, poi sulla nave madre, dopodichè condotte a forza in una perenne  guerriglia che ne farà perire molti. La critica indiretta di Mendoza va qui al governo filippino che troppo spesso, per sopprimere i focolai ribelli, ha sparato a zero su tutto e su tutti, senza badare a chi in mezzo al fuoco invece ci finiva per caso. Sullo sfondo di parecchi volti ignoti, Isabelle Huppert è l’unico personaggio riconoscibile dal pubblico europeo, sebbene i capi guerriglia siano interpretati da star filippine quali Ronnie Lazaro e Raymond Bagatsing. Cocciuta e talvolta incurante del pericolo cui è costantemente assoggettata, la vedette francese incarna Therese Bourgoine, una missionaria cristiana che diventa suo malgrado perno del gruppo di ostaggi. Sarà lei a concedere l’unica intervista che i rapitori accordano a un gruppo di giornalisti: di tutte le due ore, si tratta certamente dei minuti più intensi e riusciti del film.

Il resto è un groviglio di sofferenze psicologiche (Sindrome di Stoccolma docet) e fisiche, dove la giungla non ha pietà e si porta via molte anime a colpi di insetti, serpenti e piogge torrentizie. Dopo Kinatay del 2009, Mendoza sceglie con Captive di avventurarsi lungo una strada già percorsa, perdendosi in parte nell’eccesso emotivo che caratterizza le sue sequenze. Ci penserà Thy Womb a riconfermarlo come uno dei registi di punta per la critica internazionale, dopo che a Venezia si è portato a casa ben tre dei premi speciali assegnati dalla giuria.

 


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