TOFIFE 2005/Bentornato, Werner PDF 
di Mattia Plazio   

Werner Herzog, finalmente. Qui in Italia se ne erano perse le tracce dall'ormai "lontano" 2002, anno del suo pellegrinaggio lungo le strade del buddismo alla ricerca di quel senso, profondo, di spiritualità che pervade l'intero universo religioso dell'estremo oriente. Tanto che, conoscendo il personaggio, il timore di un suo definitivo "ritiro" dal mondo, magari proprio sugli altipiani tibetani così magnificamente descritti in Kalachakra - la ruota del tempo, era qualcosa di più che una semplice fantasia. A fugare ogni dubbio ci hanno pensato gli uomini della Fandango, gli impavidi paladini del "buon cinema", gli unici che sembrano ancora in grado, nel disgraziato, quanto impaurito, mondo della distribuzione nostrana, di scommettere, di sperimentare, di provare ad adottare uno straccio di politica degli autori. È a Procacci & Co. che si deve infatti il merito di aver riacceso i riflettori su un autore straordinariamente estremo, il frutto più resistente, tra il folgorante seppur breve percorso di Fassbinder e la gloria spesso accomodante di Wenders, di quella stagione innovatrice a cui, impropriamente, è stata appiccicata l'etichetta di "Nuovo Cinema Tedesco". Un autore che, tuttavia, avrebbe probabilmente preferito continuare a rimanere confinato nell'ombra, nei sotterranei di una produzione che ormai da anni ha abbandonato i grandi circuiti della distribuzione per seguire invece percorsi più obliqui, "minori" se si vuole, i soli che sembrano permettere a Herzog di mantenere quella libertà senza compromessi e quella radicale indipendenza che, insieme, rappresentano le condizioni necessarie per poter dare voce e corpo ai propri demoni, alle ossessioni, spesso violente e visionarie, che da sempre percorrono con straordinaria coerenza l'intera sua cinematografia.

The Wild Blue Yonder, Grizzly Man e The White Diamond sono le tre perle - strappate in tempo all'oblio cui erano inevitabilmente destinate - che vanno a costituire la solida ossatura di quella che a buon ragione può essere definita una sorta di renaissance herzoghiana, la quale ha visto esplodere, contemporaneamente, un naturale, quanto insolito, interesse da parte dei mass media per un autore spesso incautamente dimenticato, vuoi per il suo essere personaggio "scomodo" nella sua radicalità ribelle, vuoi per il suo atteggiamento di insofferenza nei confronti della critica e del luccicante sfavillio che circonda il mondo del cinema, vuoi forse per l'incapacità di comprendere appieno la forza e l'originalità di un percorso che ha preso via via la forma, inattuale, di un'incessante ricerca votata alla trasformazione di sé, del proprio modo di vedere le cose e quindi di conferire loro un significato nuovo, rivoluzionario. Nell'attesa dunque di ammirare The White Diamond - nome del dirigibile progettato dall'ingegnere aeronautico Graham Dorrington, a bordo del quale regista e inventore hanno compiuto una rischiosa ricognizione sopra le più remote foreste tropicali della Guyana - il grande pubblico può abbandonarsi fin da ora alla "visione", è proprio il caso di dirlo, di The Wild Blue Yonder (alias L'ignoto spazio profondo), straordinario docu-science-fiction con il quale Herzog si è aggiudicato il Premio Fipresci all'ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Dovrà aspettare, suo malgrado, ancora qualche mese (la prossima primavera) invece per fare la conoscenza del folle mondo di Timothy Treadwell, protagonista assoluto di Grizzly Man che, dopo aver trionfato prima al Sundance e poi alla XXIII edizione del Torino Film Festival - dove è stato proiettato in anteprima assoluta - ha già assunto i connotati del cult movie.

The Wild Blue Yonder e Grizzly Man, dunque. Due film molto diversi fra loro, per certi aspetti agli antipodi nelle atmosfere evocate, nel significato che le sequenze di immagini-documento tendono progressivamente ad assumere, nell'interpretazione di quel dato "reale" da cui comunque entrambi prendono inevitabilmente le mosse, come nella miglior tradizione del cinema herzoghiano. Eppure, agli occhi di chi conosce l'eclettismo poliedrico di un autore che nella sua lunga carriera ha frequentato una grande varietà di temi e di forme (dal cinema, al teatro, all'opera lirica), non possono che apparire come nuovi esaltanti capitoli di un medesimo discorso sulla realtà, un discorso improntato ad un'eterna sfida contro la logica dell'evidenza, alla ricerca del "diverso", dell'altro da sé, di ciò che Herzog stesso definisce la verità intensificata, estatica, che si cela dietro o "dentro" il significato delle cose, quella verità oggi offuscata da una pratica del vedere tesa sempre più a restituire un'immagine stereotipata e ingannevole dell'uomo e del mondo che lo circonda. Da qui nasce inevitabilmente la passione tanto per la vita singolare di un personaggio "deviato" come Timothy Treadwell - l'uomo dei grizzly -, quanto per il racconto di fantascienza qui inteso non come genere a sé stante, con tutti i suoi topoi e i suoi cliché, ma piuttosto come dimensione ideale attraverso cui procedere ad una graduale, e sempre più intensa, "ristrutturazione" degli occhi con i quali lo spettatore guarda e percepisce la propria realtà, nell'intento di restituire di quella stessa realtà una visione inedita, straniante, a tratti allucinatoria. Storie diverse quindi, percorsi lontani, ma un unico grande obiettivo, lo stesso che ha ossessionato Herzog in tutta la sua vita e di cui si trova una traccia più o meno indelebile in ogni sua opera.

Non è difficile dunque riconoscere nel biondo protagonista di Grizzly Man tratti e caratteristiche comuni alla lunga galleria di outsiders che popolano l'intera cinematografia del regista tedesco e verso i quali Herzog stesso, re del "margine", ha sempre nutrito una forte curiosità, subendone spesso un fascino quasi morboso: dallo Stroszek di Segni di vita ai nani di Anche i nani hanno cominciato da piccoli, dai sordo-ciechi di Paese del silenzio e dell'oscurità al Kaspar Hauser de L'Enigma di Kaspar Hauser, passando per le tante figure che affollano i documentari "antropologici" del cineasta tedesco. Tutti personaggi anomali, i cui confini percettivi si pongono su di un livello differente rispetto a quella che può essere definita la norma, la cui diversità li spinge a non accettare un'integrazione passiva nell'ordine e nella normalità per cercare invece di imporre la propria visione delle cose, suggerendo l'esistenza di strumenti inediti per concepire e interpretare la realtà. Personaggi accomunati tuttavia dal medesimo, tragico, destino che li pone davanti al fallimento delle proprie aspettative, alla scoperta dell'illusorietà del sogno, all'impossibilità di instaurare un rapporto armonico con l'"altro" da sé, di dominare la Natura, o meglio di plasmarla secondo la propria volontà. Ed è esattamente ciò che accade a Timothy Treadwell, folle sognatore osteggiato dalla collettività, il cui desiderio di unirsi "in matrimonio" con la comunità di grizzly e con il loro habitat selvaggio e poco ospitale si scontra con la totale indifferenza di una natura oscena che non è né madre né matrigna, ma che è regolata piuttosto da leggi immutabili che non ammettono eccezioni di sorta. La sua sarà una morte violenta e straziante, seppur soltanto evocata dal silenzio eloquente di un Herzog visibilmente scosso dopo aver "assistito" con le proprie orecchie agli ultimi istanti di vita dell'ecologista americano. Una morte di quelle che lasciano il segno.

Se la vita dell'uomo grizzly fornisce al cineasta tedesco l'occasione per aggiungere una nuova intensa parabola al percorso di rappresentazione di un mondo liminare, visto e interpretato attraverso gli occhi devianti di personalità fuori dal comune, con The Wild Blue Yonder Herzog riesce invece nel difficile intento di dare finalmente sfogo a un'ossessione che lo accompagna fin dai tempi di Fata Morgana e di Apocalisse nel deserto, prime due tappe di un ideale, seppur sempre incompiuto, viaggio nei meandri della fantascienza, che sembra tuttavia trovare proprio in questo suo ultimo film il suo giusto perfezionamento. Laddove in Fata Morgana e in Apocalisse nel deserto il desiderio di "fare della fantascienza" rimaneva infatti ancorato ad uno stadio di pura intenzionalità, limitandosi a costituire l'assunto iniziale, poi destinato a svilupparsi in qualcos'altro, in The Wild Blue Yonder Herzog dimostra finalmente di saper dominare la massa informe di documenti raccolti, conferendo poi loro un ordine e una struttura tali da consentirgli di innestare il tutto negli ingranaggi specifici di un racconto documentaristico in chiave fantascientifica, senza essere per questo costretto a compiere rischiosi voli pindarici. Un racconto che nel trasfigurare letteralmente la realtà fenomenica, attraverso una sapiente fusione di folgoranti epifanie visive con un uso altamente espressivo del commento sonoro, raggiunge vette di poeticità che ricordano da vicino il documentario postapocalittico sull'Iraq devastato dalla guerra, con il quale non a caso condivide anche la struttura "a poema". Se ciò che conta infatti è la sostanza, allora bisogna ammettere che, a dispetto dell'agognata unità formale (importante per pacificare il regista, meno significativa per lo spettatore), il movimento compiuto da Herzog è ancora una volta nella direzione di una ricerca che mira al recupero di quella purezza originaria che il mondo, reso "difettoso" dall'agire umano, ha tragicamente perduto o forse non ha mai posseduto. Il processo di re-incantamento sembra aprire una strada, ma finisce tuttavia per rivelare, pessimisticamente, la vanità di ogni movimento, il cui esito positivo rimane saldamente legato ad un futuro evento apocalittico in grado di cancellare l'intero genere umano e di restituire al mondo la sua bellezza primigenia.

Da questo presente non c'è futuro.

 


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