La freddezza e le contrazioni in Dogville PDF 
di Chiara Federico   

Dogville è un film insolito, che ostruisce il dilagare del naturale divismo della protagonista in uno spazio teatralizzato, reso artificiale e meccanico. Un'enorme sala-capannone che radicalizza, con i teloni che la racchiudono, l'opposizione tra il bianco e il nero, le tenebre e la luce, che scandiscono incalzanti la struttura narrativa. Nonostante la singolare durata - comunque limitata se si pensa ai 40 minuti tagliati nella versione italiana - la scansione in capitoli spezza la vaga aspettativa di "lentezza", recintando convulsamente la storia. Storia normale, quasi banale, di una sconosciuta che arriva in una cittadina in cui le pareti delle case camuffano - nella loro trasparenza illusoria - la solidità greve e infrangibile avvertita da chi vi abita, nonché le cose, gli animali e le persone additate e dipinte dalle indicazioni in stampatello bianco sul pavimento.

Nettezza e crudezza nel delineare i tratti di gente ordinaria, senza rilievi o eccessi di colore nella voce e nei lineamenti, eppure sempre più strana e grottesca agli occhi sgranati di un ipotetico spettatore, veicolati dallo sguardo dell'eterea sconosciuta. L'accensione esasperata delle nuànces fredde della figura portano Grace prepotentemente al centro del pensiero, nonostante la narrazione - che presto scopriremo subdola e falsamente oggettiva - del co-protagonista Tom (Paul Bettany, l'allucinato amico immaginario di Nash in A Beautiful Mind), giovane scrittore di poche speranze che si avventa sulla donna con tutto il suo interesse descrittivo ed investigativo, restandone attratto per gran parte della storia e inventando con la sua frammentaria vitalità creativa l'amore per "la straniera" (il diverso), per poi finire a desiderare da lei nient'altro che "il racconto", l'unico della sua carriera. Grace è investita dal regista di una grazia generosa e tirannica insita nel suo stesso nome, nella volontà sconfinata di scoprire miniere d'umanità nella pochezza di un paesino perso nelle montagne rocciose. Quella stessa volontà che è alla base della sua iniziale intenzione di costruire la fiducia impossibile delle nuove persone che la circondano, di scavare nei loro volti di pietra e nell'elementare e assurda economia del posto, di rendere la sua integrazione materica, attraverso l'innamoramento per le statuine malamente pitturate dell'unico negozio locale.

Grace è fuggita da qualcosa e qualcuno, dal potere raffinatosi nel tempo, letale e stretto attorno a lei come una morsa affettiva. Il regista ci pone di fronte alla sua creatura solo in parte umana, personificazione vivente di un'ingenuità sopravvissuta e scaturita dal male. È figlia di un boss, scopriremo alla fine, da cui due volte si nasconde scappando in una grotta che in realtà non esiste. È ricercata, ma non da un'autorità meccanica e generica, ma da quella del suo stesso padre. L'elemento di prigionia forzata, la fragilità apparente e l'illusione di invulnerabilità accrescono il piacere sadico degli abitanti di Dogville nei suoi confronti. È la sua bontà a vacillare, a farsi insinuante e difensiva, mentre cresce attorno a lei il pretesto generale di sfiducia, che inaugura il rito - collettivo ma non dichiarato tale - della violenza.

Gli abitanti si riuniscono in una sorta di consiglio, una trafila di facce pietrose e squadrate. Tra i volti quello di Lauren Bacall, la proprietaria del negozio - più sospettosa fin dall'inizio - il vecchio cieco, l'aiutante del negozio, suo marito. È da quest'ultimo che si innesca il lungo processo di angoscia, di solidale stoltezza e fragile connivenza tra gli abitanti. Come per tutti gli altri, Grace fa "qualcosa per lui", qualcosa di cui l'uomo inizialmente non avrebbe avuto bisogno: un'"invenzione collaborativa" che finisce per essere necessaria al nuovo equilibrio di Dogville. Lo aiuta nella raccolta delle mele. Ma l'uomo si rivela ben presto una perfetta creatura del recinto umano: il più ostile a Grace fin dall'inizio, brama fortemente un contatto estremo con l'ospite, una congiunzione paritaria che poi diventa, improvvisamente, prevaricatoria. Al lieve rifiuto, scatta la trappola: il primo stupro, in un angolo tra la legna raccolta. Sarà il primo di una serie. La moglie crederà di proposito alla versione del coniuge. Il bambino più insidioso del posto, introiettatore dell'ottusità forzata e deformata della coppia, condurrà con Grace - diventata intanto la sua bambinaia - un singolare gioco: la provocherà ad inveire contro di lui, a uscire fuori di sé, a picchiarlo. Le mansioni al negozio diverranno sempre più assurde e surreali. Le statuine cadranno. Il vecchio uomo cieco non vorrà più solo la voce di Grace, ma infastidito dai suoi racconti e disperato per non possedere la luce che essi evocano, vorrà anche lui un contatto con la donna.

Seguiranno minacce, angherie sessuali e psicologiche, stupri, nei confronti dei quali le pareti immaginarie si apriranno in una sorta di comunione cieca e sorda. E seguirà una rivelazione: anche Tom, unico "amico" di Grace, ridotta ad una salma di sé stessa e legata ad una massiccia catena d'invenzione dell'amico di scarsa intelligenza, rivelerà, dopo una fuga fallita, la volontà di distaccarsi dalla donna. Non l'aveva mai realmente aiutata, e, pur essendo stato l'unico ad amarla di un amore idilliaco, non aveva saputo resistere al potenziale informativo e demoniaco del biglietto che due uomini eleganti in un auto nera gli avevano lasciato. Ma gli uomini che cercavano Grace non volevano ciò che i Dogvilliani si aspettavano. Illusi di farsi complici di una giustizia netta e fagocitante, i vari personaggi porgono Grace di fronte agli stranieri come fosse una preda braccata, un male svilito. Il padre della ragazza, ridotta a larvale proiezione della sua bontà, la mette di fronte ad una scelta: restare lì, fondendosi al nulla e aspettando una morte lenta e faticosa, o andare via con lui. Grace sceglie ciò che ogni spettatore si augurerebbe, senza poterlo ammettere. Di annientare la chiusura, la grettezza, la stupidità sbandierata dal giovane inventore, nel più plateale e assoluto dei modi. Si rende conto dalle parole del padre, portatore di una giustizia parziale, arbitraria e perciò devastante, che la sua "grazia" non era null'altro che una superba, suprema castrazione dell'altro: concedendo il perdono ai "cani" della cittadina aveva precluso loro ogni possibilità di scelta, impedendo uno svincolamento dall'insensatezza gratuita del loro desiderio di sopraffazione. Si era eletta a giudice universale, contrapponendo il suo muro rosato e iridato di santificatoria accettazione alle menti tarate e animali della "povera gente".

La scena finale, in una splendente raffica di mitra contro il fondale rosso, risparmia solo l'essenza del luogo: un cane rabbioso, immobile osservatore delle insopportabili e minute torture accumulatesi in un crescendo d'odio. Un'esecuzione fredda, quasi dovuta, funzionale alla struttura senz'uscita della storia. Oppure un coinvolgente, adirato atto finale, che offre a ogni singolo spettatore la possibilità di liberarsi, come accade alla protagonista, di ogni ipocrisia liberale o falsamente conciliante. Uno sbocco per la violenza repressa, che redime chi guarda dalla squallida cattiveria, dal vuoto (apparentemente) ferino delle menti di un piccolo luogo che si fa simbolo dell'America, faro sulle origini del mondo occidentale. Ma che investe, invece, del potere più raffinato, quello di dare la morte. Uccidere la gente di Dogville non lascia indifferenti. Possiamo immaginarli come zombie, mostri generati da un suolo informe, ineducati, dalla volontà utilitaria e passionale di esistere, di deambulare affermando la propria natura di uomini "semplici". A Dogville non c'è spazio per il sapere autentico, per la conoscenza dell'altro, nonostante le dissertazioni del giovane scrittore codardo. L'apertura è uno spettro, una rinuncia, un timore di riflettersi per i "cittadini" nella propria inferiorità morale, intellettuale, storica.

Il nome emblematico estrae dalla parola "cane" la sua radice più antica e impietosa. Cane come cinismo, assenza di cultura, natura allo stato brado, incapace di far proprie le "aggressioni" del progresso occidentale, ma pronta ad essere inglobata da ciò che di immutabile è racchiuso in queste aggressioni: il piacere fine a sé stesso, il nuovo piacere dato dai piccoli poteri, dalle piccole possessioni. Non c'è nulla di nobile nella semplicità cui la figlia del gangster anela: il semplice è "sempliciotto" e nell'ignoranza, voluta o non voluta, si celano raffinazioni inconsce, esplosioni di frustrazione e malvagità. L'esclusione dal mondo esterno, la relegazione del recinto disegnato della scena è avvertita dai personaggi. Di quest'emarginazione gli individui-cani fanno, senza saperlo fino in fondo, motivo di rivendicazione, e poi unico, fittizio amore. L'amore dell'essere esclusi. L'amore per l'unica perla di falsa saggezza che splende e ferisce attraverso i loro gesti, le loro parole, le loro sagome volutamente offuscate e scolorite da una regia impietosa.

Ma l'animalizzazione non è una contaminazione per contatto diretto: è sorretta dalle grandi società che fingono di pensare in piccolo, di ritagliarsi sulle forme dell'individuo al quale soltanto apparentemente si asserviscono, schiacciandolo infine su di un fondale piatto e misero. Su tutto, le immagini di scarnificazione umana in bianco e nero del tema finale, cantato da David Bowie con scherno e potenza.

 


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