Il silenzio dopo lo sparo: Alla luce del sole di Roberto Faenza PDF 
di Andrea Bettinelli   

Può sembrare fuori luogo soffermarsi a riflettere sugli aspetti linguistici di un film in cui la regia fa di tutto per non offuscare con la propria presenza la trasparenza dell'oggetto. Raccontando la vita di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia il 15 settembre del 1993, Roberto Faenza ha adottato infatti uno stile sobrio e asciutto, privo di compiacimenti estetici, quasi invitando lo spettatore a ignorare la forma per concentrarsi sul contenuto.

Eppure anche questa "assenza di regia" non è del tutto neutra. Il regista ha deciso di rinunciare agli artifici registici più vistosi e in primo luogo al virtuosismo dei movimenti di macchina, per concentrarsi su una serie di interventi minimi che agiscono in maniera sotterranea. Le regia di Faenza non è televisiva, come qualcuno potrebbe pensare: è un'arte del levare assolutamente cinematografica, che si nutre di ellissi, reticenze, lievi cenni che permettono alla materia trattata di lievitare in una luce personale. Basti pensare alla grande ellissi attorno a cui ruota il racconto di Alla luce del sole, quella relativa all'assassinio di don Pino. Questa scena è ripetuta, secondo una struttura circolare, sia in apertura, sia in chiusura di film, come accadeva - in un contesto analogo - nel bel film di Vicentini Orgnani dedicato a Ilaria Alpi (Il più crudele dei giorni, 2003), con la sola differenza che Faenza non mostra l'uccisione in atto, il momento in cui i killer premono il grilletto e il corpo della vittima trafitto dai proiettili.

In quest'epoca dominata da uno sguardo rallentato e insistito sulla sofferenza fisica (si pensi alla Passione di Gibson), Faenza ha rinunciato all'elemento drammatico più facile, forse per una sorta di pudore, per togliere alla sua operazione ogni sospetto di spettacolarizzazione e speculazione del dolore. O forse per un altro motivo legato più all'economia del racconto, alla necessità di spostare l'attenzione dello spettatore verso l'elemento drammaturgicamente più interessante che si situa - per citare il celebre film di Schlöndorff - in corrispondenza del "silenzio dopo lo sparo". Per cui il momento più intenso del film non si identifica con una scena da gangster-movie, ma con l'inquadratura dolente di don Pino morente riverso per terra. Non l'azione, ma l'agonia e la solitudine del martire. Anche in questa scena la presenza della regia si rivela in controluce, e più nella traccia sonora che in quella visiva. Mentre la mdp inquadra il cadavere, fuori campo si sente la telecronaca di una partita di calcio. Si tratta di una voce over più che off, un commento extradiegetico del regista che intende esprimere, con questo segno minimo, l'indifferenza della nazione al dramma del parroco di Brancaccio, la solitudine di questi inscritta in un contesto sociale e culturale più ampio.

Faenza ha dichiarato alla stampa di non essersi ispirato alla grande tradizione del film di denuncia italiano, che ha il suo modello nel Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, il quale partiva da una volontà di analisi sociale e politica. In fondo, Rosi non faceva altro che drammatizzare i risultati di lunghe ricerche d'archivio rinunciando ad ogni affabulazione romanzesca. Faenza invece - sono parole sue - ha inteso dare risalto all'emozione più che alla ragione: il che non significa che si sia discostato dalla storia o che abbia eliminato ogni riferimento storico-politico; significa innanzi tutto che non ha infranto il carattere personale e anche intimo della vicenda, che non ha dissolto l'individualità del personaggio nella vicenda collettiva.

Ma c'è forse un motivo più profondo per quest'opzione a favore dell'interpretazione emotiva. Riflettere con gli strumenti dell'analisi storica e politica sulla vicenda di don Pino, realizzando un film-denuncia nell'accezione più illustre della nostra tradizione, avrebbe significato consegnare al pubblico un film cupo e senza speranza, perché dal punto di vista storico e politico l'esperienza di don Pino è stata fallimentare. La vittoria del parroco di Brancaccio si situa su un altro piano, che possiamo definire "spirituale", in un'ottica cristiana, e "etico", in un'ottica laica: si trattava di inseguire, con gli strumenti dell'emozione poetica, quest'altra verità. Per questo l'obiettivo di Faenza è stato quello di recuperare sulla pellicola la complessità di don Pino, di dare ragione delle motivazioni profonde della sua vita. Da questo punto di vista, può sorprendere il fatto che il regista non abbia molto insistito sugli aspetti spirituali del personaggio: sul fatto che si trattava, prima ancora che di un eroe civile, di un uomo di fede. In questo deve avere giocato un ruolo importante la formazione culturale laica del regista. Non che il film sia del tutto privo di elementi che rimandano a una lettura spirituale e direi quasi cristologica della sua vicenda: ma sono elementi quasi inevitabili, naturalmente iscritti nella materia di partenza. Prendiamo come esempio la messa iniziale che vede don Pino nella chiesa deserta di fedeli: una scena di questo tipo avrebbe potuto essere approfondita, tanto più che veniva in soccorso una tradizione cinematografica illustre, dal parroco di Bresson a Luci d'inverno di Bergman. E invece Faenza accorcia la scena e la chiude rapidamente secondo una sintassi breve e scandita, soprattutto rinuncia a qualsiasi simbologia metafisica.

Altra sequenza: la gita notturna in campagna che precede la morte. Don Pino guarda il cielo stellato con i suoi bambini. Anche questo segmento potrebbe contenere una filigrana evangelica e in effetti è pervasa da un'atmosfera da "Getsemani", soprattutto laddove il parroco allude all'imminenza della propria morte e raccomanda il proprio corpo al suo aiutante. Eppure la lettura che Faenza fa di questo passo è più poetica che spirituale: il cielo stellato che contempla il suo personaggio non prelude a nessuno spazio divino, è un simbolo lirico, una tessera poetica del film.

Resta da parlare dei bambini di Palermo, cui il film è dedicato e che ne costituiscono il personaggio corale (curiosamente, il film è distribuito da una casa intitolata a Jean Vigo, l'autore di Zéro de conduite).
Faenza ha scelto i suoi piccoli attori sul campo, tra gli abitanti di Brancaccio, si è calato nei panni di don Puglisi e ha vissuto qualche mese con loro. Quest'esperienza ha prodotto, oltre al film, un documentario sull'infanzia dimenticata. Raramente l'infanzia al cinema ha avuto tanta forza e verità come nel film di Faenza, di recente forse solo in Respiro di Emanuele Crialese. Alla luce del sole si apre e si chiude proprio sui bambini. Nella scena iniziale, essi si prestano a sevizie sugli animali per conto della mafia. Nella scena finale, vegliano sulla bara di don Pino. In questo scarto tra inizio e fine, in questo percorso narrativo di crescita Faenza ha voluto alludere alla vittoria di don Pino, al senso di speranza della sua vicenda.

Bibliografia
Alla luce del sole. La sceneggiatura del film di Roberto Faenza, a cura di A. Montesi e L. Pallanchi, Gremese, Roma 2005.
B. Stancatelli, A testa alta, Einaudi, Torino 2003.
F. Deliziosi, Don Puglisi. Vita del prete palermitano ucciso dalla mafia, Mondatori, Milano 2001.

 


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