Matteo Garrone PDF 
Anna Barison   

ImageQual è stato il motivo principale che ti ha spinto a lavorare su Gomorra, prima che diventasse un bestseller amato dal pubblico e dalla critica, non solo in Italia ma anche in moltissimi altri paesi?
Mi sembrava che il libro di Saviano raccontasse la Camorra come nessuno aveva mai fatto prima. L’aspetto che mi ha colpito maggiormente era la possibilità di raccontare quel mondo dall’interno, attraverso gli occhi dei suoi stessi protagonisti. Inoltre, il progetto mi sembrava interessante perché c’erano delle immagini drammaturgicamente forti per il loro realismo, ma allo stesso tempo visionarie.

Vorrei analizzare insieme a te la sceneggiatura. Che cosa è rimasto dell’idea iniziale? Hai cambiato molte scene dall’impianto originario?
Abbiamo lavorato per molto tempo alla sceneggiatura, cambiando spesso molte scene, ma dell’idea originaria è rimasta l’anima. Una delle anime, perché il libro poteva avere varie interpretazioni. Abbiamo scelto alcuni personaggi, eliminandone altri; abbiamo deciso di raccontare quel mondo dal basso, non volevamo raccontare i quartieri alti di Napoli, ma piuttosto l’aspetto umano dei protagonisti, con i loro conflitti e le loro contraddizioni, in una dimensione totalmente condizionata dal Sistema. Abbiamo eliminato per esempio la storia di Don Peppino, il prete ucciso dalla Camorra: mi è dispiaciuto molto, poteva essere interessante raccontare quella vicenda, ma avendo in progetto un film per il cinema non potevamo andare oltre le due ore e venti, per questo abbiamo dovuto optare per dei tagli.

ImageSaviano è stato co-sceneggiatore. Che tipo di legame lavorativo hai avuto con l’autore del libro?
Il periodo in cui abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura è coinciso con quello in cui Saviano ha iniziato a subire minacce dalla Camorra. Avendo serie difficoltà organizzative, non lavorava molto spesso con noi. Però le scelte principali le abbiamo fatte insieme, come l’idea di raccontare il mondo malavitoso attraverso i suoi personaggi e le loro scelte. Piuttosto che soffermarci sui nomi e cognomi dei camorristi e su un cinema di denuncia giornalistica che non ci interessava, abbiamo preferito analizzare delle tematiche che in qualche modo potevano essere universali.

E tu ti senti in pericolo?
No, mi sento al sicuro, abbastanza tranquillo diciamo, perché già dalle premesse del film c’era l’intenzione di non fare nomi e cognomi. Per noi sceneggiatori la cosa più importante era che il film potesse essere visto e capito in tanti paesi, e potesse emozionare. Gomorra riguarda una città e un luogo ben definito, Napoli e i dintorni, ma in realtà poteva rappresentare anche un altrove, un luogo che diventa una metafora per parlare di alcuni temi che sono universali. Questa era la nostra intenzione.

ImageParliamo dei personaggi. Nel tuo modo di lavorare si intuisce una certa ammirazione per la gente comune, volti presi dalla strada (anche se in questo film erano tutti attori semi professionisti), persone che rispecchiano il luogo in cui vivono. È la necessità di avere un assoluto realismo, in cui la finzione diventa più reale del reale?
Le facce le scelgo non tanto perché voglio raccontare “la strada”, quanto perché andando a girare in determinati territori cerco dei volti che secondo me sono giusti rispetto a quell’ambiente. Personalmente, ritengo che ci sia una differenza anche tra i vari componenti della Camorra, per esempio tra i volti dei personaggi che ammazzano Marco e Ciro e la criminalità di Scampia, ma forse sono sfumature che ho colto solo io quando sono entrato per la prima volta in quei luoghi. Interessante è aver scoperto che i boss hanno un modello fashion e glamour a cui ambiscono, e che però non è loro realtà. Infatti, hanno il mito di trasmissioni televisive come Il Grande Fratello o quelle della De Filippi. Ma per quanto cerchino di imitare questo modello, la loro realtà è totalmente diversa.

Cosa fanno nella realtà i tuoi attori?
Varie cose: c’è chi fa l’attore, chi lavora al mercato, chi fa il muratore, chi va a scuola…

Nel tuo film non c’era l’intento di dare un risvolto sociale alla storia. Tuttavia, si percepisce una denuncia molto forte al sistema camorristico. Dopo il successo a Cannes, tuo e di Sorrentino, sono state sollevate alcune critiche rispetto ai vostri film, una per tutte “i panni sporchi si lavano in casa". Una querelle antica: anche Andreotti negli anni Cinquanta disse lo stesso per i film del neorealismo italiano…
Sono state critiche giunte da una fonte non così autorevole come Andreotti… al Ministro Bondi, per esempio, è piaciuto molto. Mi sembra molto più interessante che Bondi abbia detto che è un film che andava fatto. Ed è da qui che noi registi italiani dobbiamo ripartire.

ImageNoto che hai eliminato quasi totalmente l’estetica e la retorica del mafia-movie (vedi Scarface, che è anche citato) a favore di una rappresentazione più intimista del male. Eludendo queste dinamiche, che cosa ti interessava cogliere?
C’è un lato umano molto forte, ma anche Scarface ce l’ha. L’aspetto che ho eliminato è il glamour. Era inevitabile stando lì e raccontando la vicenda con uno sguardo documentaristico. Anche se solo apparentemente, perché abbiamo ricostruito sul set tutta quella realtà. Le dinamiche umane mi sembravano un aspetto sorprendente da raccontare. Non raccontando i quartieri alti, ho eliminato l’aspetto patinato e il lusso, volevo raccontare dei personaggi che vivono delle storie inedite rispetto all’immaginario cinematografico.

Nell’uso della fotografia c’è un forte richiamo al simbolismo, soprattutto nei colori. Gli interni sono cupi e freddi, gli esterni molto caldi. Tu vieni dalla pittura, in cui il colore è semantizzato. Questo ha contribuito alla messa in scena finale?
Non era voluto il simbolismo, l’unica cosa che cercavo di fare era rendermi invisibile a livello registico. Allo spettatore volevo dare la sensazione di stare in quei luoghi, accanto a questi personaggi. Per questo ho usato un modo molto semplice di riprendere, spesso ho usato la macchina a mano cercando di non farla sentire, e questo mi sembrava il modo più giusto per dare la sensazione che fosse un reportage di guerra. C’è dietro un grande lavoro drammaturgico e la ricostruzione totale della realtà, però c’è anche una precisa volontà: quella di non far sentire mai il virtuosismo del regista.

ImageAnche il commento musicale non si vuol far notare…
Il film suggeriva certe scelte: per esempio quella di eliminare i commenti. La musica non doveva diventare un commento al film, perché così facendo si svelava la presenza di una figura che cercava di dirti che sentimenti dovevi avere in quel momento, e quindi banalizzava il tutto. Questo vale per la musica, ma anche per le riprese, come dicevo priva. La musica è dentro l’ambiente, è usata come uno dei tanti suoni che realmente ascolti quando ti trovi in quei posti: senti dei suoni, delle musiche, delle voci, dei rumori di macchine, moto...

La violenza nel tuo film non è mai esibita forzatamente. Come ti sei rapportato a questa impostazione stilistica?
La violenza è funzionale al racconto. La storia è violenta solo in momenti mirati, quando per esempio i personaggi hanno paura e si ritrovano in dinamiche violente, oppure come nel caso di Marco e Ciro, che, vivendo in una realtà quasi immaginaria, per loro la violenza è qualcosa che non gli sembra vero di toccare.

ImageIn ultima analisi il tuo film mi pare essere molto spiazzante, un’"opera aperta" con più livelli interpretativi, che turba la coscienza del pubblico perché sembra essere privo di speranza. Anche se la speranza sembra svanire quando si parla di Camorra, tu a che cosa vorresti potesse servire questo film?
Non so se le cose cambieranno o meno grazie a questo film. Non ho mai pensato se il film avesse speranza o no, seguivo solo la realtà dei miei personaggi. Ho raccontato delle storie di uomini e di donne e, attraverso le conseguenze delle loro scelte, ho cercato di capire questi personaggi, di creare un rapporto con loro, e di vivere delle emozioni. Ho voluto fare un film che avesse un impatto emotivo sullo spettatore, che funzionasse sul piano emozionale. Per me questa era la cosa più importante. Inoltre questo film mi ha lasciato la voglia di rimettermi al lavoro al più presto.

Primo amore ha qualche punto di contatto con questo film: la freddezza, e il fatto che chi lo guarda rimane spiazzato. Secondo me, anche se forse ti sembrerà un po’ azzardato, l’effetto che ho avuto guardando Gomorra è stato simile alla percezione che ho avuto con gli ultimi due film visionari di David Lynch: sono uscita dal cinema ed ero stordita senza sapere bene il perché.
Quello che dici mi fa piacere perché, piuttosto che ad un aspetto razionale, il film colpisce a livello emotivo, e questo per me è il massimo risultato che un regista può ottenere. Primo amore era più cerebrale però, più di testa. Gomorra, proprio perchè prende allo stomaco, ha vari piani di lettura, vari livelli interpretativi e quindi riesce in qualche modo a coinvolgere un pubblico trasversale.

 


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