Kitchen Stories - Racconti di cucina PDF 
di Emanuele Rozzoni   

"Volevo realizzare una storia sull'amicizia e la solitudine, sulla necessità di socializzare dell'essere umano, basandomi però su una documentazione reale". Così dichiara in un'intervista ad Arianna Finos (il Venerdì de La Repubblica) Bent Hamer, regista norvegese classe 1956, a proposito del suo ultimo lungometraggio, Kitchen Stories, terza prova dopo i precedenti Eggs (1995) e Water Easy Rich (1998).

E infatti il soggetto del film di Hamer, presentato a Cannes nel 2003, nella sezione Quinzaine des réalisateurs, e candidato all'Oscar 2004 nella categoria del miglior film straniero, deve il suo spunto iniziale, e molta della sua originalità, alle ricerche effettuate nel primo dopoguerra dall'istituto svedese H.R.I. (Home Researche Institute) sulle abitudini delle casalinghe in cucina. Ricerche che stanno alla base di quella vera e propria filosofia industriale tesa a creare cucine e ambienti domestici "ideali" perfettamente organizzati ed efficienti, seguendo la linea guida della massima razionalizzazione degli spazi, del tempo e del denaro investito.

Inverno 1950. Una lunga teoria di roulotte a forma di uovo, tutte uguali, che trasportano, legati sul tetto, grandi trespoli di legno, tutti uguali, oltrepassa la frontiera innevata che divide la Svezia dalla Norvegia a rimorchio di macchine tutte uguali. A guidarle, diciotto ricercatori svedesi, spediti in un remoto villaggio della campagna norvegese, abitato da una comunità in cui il numero degli scapoli sembra superare quello degli uomini sposati. Compito dei ricercatori è quello di installarsi, a cavallo dei loro trespoli, nelle cucine degli scapoli, per spiarne le abitudini domestiche al fine di elaborare prodotti industriali su misura per nuovi potenziali acquirenti. Nell'eseguire il loro lavoro, gli osservatori hanno una consegna ben precisa: vietato parlare o intrattenere alcun tipo di rapporto con gli osservati. Ma in molte delle cucine, e in particolare in quella del burbero e solitario Isak, questa regola sarà progressivamente messa in discussione. Così Folke, il ricercatore incaricato di "studiare" Isak, si trasformerà da osservatore in osservato, e fra i due uomini nascerà un'amicizia tanto pudica quanto profonda, capace di modificare i comportamenti e le scelte di entrambi.

Kitchen Stories è un film che presenta molteplici livelli di lettura, che intreccia temi diversi e tutti serissimi, ma con leggerezza, ironia e una comicità trattenuta che è cifra riconoscibile di molta recente produzione scandinava.

Lo sguardo di Hamer si concentra innanzitutto sui rapporti umani, quelli fra individui ma anche quelli fra popoli. La storia dell'amicizia tra il norvegese Isak e lo svedese Folke esemplifica la necessità di superare i pregiudizi, oltre a schemi di pensiero e metodi di indagine della realtà troppo rigidi, al fine di stringere fecondi rapporti di fratellanza e di scambio culturale.
È interessante notare come l'indagine sulla natura dei processi comunicativi e sull'evoluzione da un modello relazionale giudicato negativamente a uno ritenuto positivo passi attraverso il graduale modificarsi della collocazione degli attori nello spazio della cucina e nell'inquadratura.

In un primo momento del film l'osservatore (Folke), appollaiato sul suo trespolo, occupa una posizione più elevata rispetto all'osservato (Isak), che se ne sta spesso seduto a un angolo del grande tavolo di legno grezzo della cucina. I due si trovano così alla massima distanza possibile, agli estremi opposti di un'ipotetica diagonale che tagli l'inquadratura, uno all'angolo basso e l'altro all'angolo alto dello schermo. In questa fase la comunicazione fra i due si limita a rapide occhiate investigative, a mute dichiarazioni d'insofferenza da parte di Isak, che non perde occasione di prendersi gioco del suo indesiderato ospite. Inoltre Folke è spesso inquadrato frontalmente dal basso: la sua figura rannicchiata sul seggiolone assume un aspetto tragicamente comico, schiacciata com'è contro il soffitto, imprigionata nelle geometrie strette delle pareti che convergendo la configgono implacabilmente nell'angolo alto della stanza.

In un secondo momento i rapporti sembrano capovolgersi. Attraverso un buco praticato nel soffitto, Isak spia dall'alto Folke. L'osservato diventa osservatore. Intanto i due cominciano ad interagire. Folke, a gesti, offre il suo tabacco svedese a Isak che ne è rimasto senza, e quello in cambio gli porge una tazza di tè, collocandola furbescamente all'estremità del tavolo proprio sotto il trespolo. Il ricercatore è così costretto a scendere dal seggiolone. In piedi beve il suo tè, e rivolge per la prima volta una parola ad Isak: "Grazie". Non a caso, richiamandosi a questa scena, il film si chiuderà su un'inquadratura di due tazzine di tè e un sacchetto di tabacco sul tavolo, metafora di una comunicazione e di uno scambio culturale ormai in atto. Ma già a questo punto del racconto la regola del silenzio è infranta, i pregiudizi si allentano, la necessità di socializzare emerge come bisogno naturale e se i due attori si trovano ancora collocati agli estremi opposti dell'inquadratura, la linea ipotetica che li unisce è ora orizzontale. Ciò significa che il loro rapporto non è più sbilanciato, il che favorisce la comunicazione, che è alla base della comprensione: "Come possiamo capirci se non comunichiamo?", dice ad un certo punto Isak a Folke. Domanda semplicissima che in un attimo fa carta straccia anche di ogni supposta superiorità dell'osservazione scientifica e neutrale, di stampo positivista (qui incarnata dai ricercatori svedesi), che, applicata all'uomo, non è sufficiente per conoscerlo e capirlo, pena il ridurlo a una somma di funzioni che ne sminuiscono l'imprevedibilità e l'originalità, la fantasia (Isak usa la cucina anche per stendere i panni e farci il bagno), variabili, invece, non quantificabili e calcolabili. A questo tipo di osservazione conoscitiva, alla base di molte ricerche e "filosofie" industriali volte a elaborare classificazioni e modelli sfruttabili a scopo commerciale, se ne oppone dunque, nel film, un'altra, di tipo più tradizionalmente umanistico, fondata sulla relazione e sulla comunicazione, non solo verbale, capace di generare vera comprensione e amicizia.

Non a caso allora, in un terzo e ultimo momento del film, ritroveremo Folke e Isak a parlare, sorseggiando tè, seduti al tavolo di cucina, uno di fronte all'altro, compresi in un'unica e ravvicinata inquadratura di profilo. È chiaro, a questo punto, come tale immagine esemplifichi il modello di comunicazione preferito dal regista: paritario, frontale, a quattr'occhi, amichevole. Tutte qualità che connotano, su un altro piano, il rapporto che Hamer cerca di instaurare con lo spettatore.

È importante sottolineare che Kitchen Stories non è solo un film sulla comunicazione in generale, ma soprattutto su quel particolare tipo di comunicazione che si instaura fra maschi, e per di più singles. Le donne infatti sono praticamente assenti in questa pellicola, scelta alquanto originale per un film che pone come suo luogo emblematico la cucina. Se da un lato la scelta di mostrare solo singles riflette la presa d'atto di una struttura sociale odierna sempre più frantumata e mononucleare (oltre che la necessità di indagare il problema della comunicazione in una società siffatta), dall'altro lato il fatto che i singles qui siano solo maschi spinge l'indagine verso un terreno ancor più complesso, essendo la comunicazione fra uomini per sua natura problematica, fatta spesso più di silenzi e codici strani che di parole.

Accanto ai temi sopra delineati, ce n'è un altro che percorre in modo abbastanza scoperto l'intero film: quello, attualissimo, dell'invasione della propria privacy, del sentirsi (e dell'essere) continuamente monitorati, spiati, per ragioni che assumono, a seconda dell'esigenze non sempre legittime di chi butta l'occhio sulle nostre vite, diversi nomi: sicurezza, marketing, semplice voyeurismo.

La cucina, dunque, si offre nel film di Hamer come luogo ideale per indagare questo vasto spettro di temi, in quanto tradizionalmente vissuta come "cuore della casa", luogo di incontro e scambio che avvengono, con precisa ritualità, attorno a una tavola più o meno imbandita. Riaffermare la centralità della cucina come spazio per eccellenza della comunicazione significa allora sottrarla a chi vorrebbe farne (e ne ha fatto) terreno di conquista e poi emblema di un'organizzazione scientifica della vita e del lavoro domestico, simile a quella applicata, su più vasta scala, alla vita e al lavoro in genere. Significa, in ultima analisi, riconquistare spazio all'uomo, alle relazioni, all'amicizia, alla fantasia.

 


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