Troppo ingenuo per gli ingenui. Pasolini tra cinema e politica PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageIn anni recenti si è potuto assistere, in modo disomogeneo e probabilmente a-sistematico, al propagarsi di una sorta di revisionismo politico circa l’eredità culturale di una stagione della storia italiana, sostanzialmente identificabile nella presenza quantomeno problematica del PCI, in particolar modo sotto il segretariato di Togliatti. Ma lungi dal concentrarsi in chiave analitica sulla condotta di tale specifico soggetto politico, né tanto meno di recuperare produttivamente le posizioni di dissenso a sinistra, opinionisti e politologi di fama nazionale appaiono affannati nella condanna unanime del comunismo, e implicitamente del marxismo, dal momento che una possibile differenziazione costituisce forse una sfumatura troppo sottile per queste analisi tagliate con l’accetta. Non tanto, o non soltanto, a seconda dei casi, una condanna storica del fenomeno specifico italiano o della degenerazione stalinista, quanto una condanna politica che esprimendo riserve inoppugnabili sulle teorie d’ispirazione marxista vorrebbe determinarne la completa radiazione dagli scenari futuri. Il fenomeno ha raggiunto il suo apice alle ultime elezioni politiche, con il fallimento elettorale dei partiti che si richiamavano esplicitamente alla tradizione comunista: è in questa occasione che si sono sprecati commenti trionfali sull’abbandono delle vecchie ideologie, sul rinnovamento della cultura politica se non addirittura della cultura tout court, commenti che certo hanno potuto armonizzare alla perfezione la folta schiera di comunisti pentiti, che popola tanto l’informazione quanto il parlamento, con le buffe tirate maccartiste dell’attuale capo del governo. E appare sconcertante come, seppur sospette di ipocrisia, le voci di rammarico su tale risvolto socio-politico (nonché su un serio problema di rappresentanza) si siano levate soprattutto da ambienti di destra, oltre che ovviamente dai diretti interessati.

ImageIn questa situazione forse imprevista dagli stessi protagonisti, si aggrava improvvisamente un rischio già manifestatosi negli ultimi quindici anni, quello cioè di perdere di vista, in nome dell’assenza di ideologie, potere diagnostico, contenuto critico, e tensione antiideologica del marxismo originario, e conseguentemente di certa cultura d’ispirazione comunista, laddove è proprio tale cultura ad aver costituito, parallelamente ad alcuni spunti dell’anarchismo, la sorgente di tutta la teoria critica in grado di decostruire e analizzare i processi economici e culturali della nostra epoca. Se dunque appare legittimo e anzi illuminante sottoporre al giudizio storico le concrezioni politiche della teoria comunista, esaminando lucidamente sia gli abomini dei regimi esteri sia i meno terribili scenari della storia del comunismo italiano, che pure ha le sue pagine inquietanti, ciò che va instancabilmente recuperato sono quelle esperienze di dissenso interne alle sinistre europee, che richiamandosi alla lezione originaria del marxismo ne hanno fatto uno strumento essenzialmente critico, volto ad attaccare anche la degenerazione ideologica del comunismo stesso. Il primo risultato di questo recupero sarà il facile smascheramento, benefico quanto sarcastico, della falsa assenza di ideologie che auspica il rinnovamento, e che si rivela invece come radicalizzazione della solita ideologia imperante ormai indisponibile anche al più innocuo dei dialoghi, determinata com’è alla riproduzione dell’esistente, quella riproduzione acritica dell’esistente verso cui il marxismo può continuare a rappresentare un tentativo di messa in discussione indipendentemente da qualsiasi aspirazione rivoluzionaria.

ImageÈ in questa luce che le operazioni orchestrate da Giuseppe Bertolucci guadagnano l’importanza meritata, al di fuori di un discorso storicistico o autoreferenzialmente cinematografico. Poiché Pier Paolo Pasolini costituisce uno dei massimi esempi italiani di eterodossia marxista (per quanto parlare di eterodossia marxista risulta sempre ambiguo poiché spesso l’ortodossia marxista può rivelarsi assai eterodossa alla lezione dello stesso Marx…), la cui forza risiede tanto nella personale asistematicità delle sue argomentazioni (gli giova il fatto di non essere, almeno in prima battuta, un filosofo) quanto nell’intervenire con tempismo anagrafico in un momento di radicale trasformazione della società italiana, sulla scorta delle trasformazioni europee che i grandi esponenti del marxismo critico, da Adorno a Benjamin, avevano cercato di comprendere. Realizzare una sorta di commistione tra un’intervista e un backstage sul set di Salò, come ha fatto Bertolucci nel documentario Pasolini prossimo nostro, o recuperare una ipotetica versione originale de La rabbia, non sono operazioni destinate agli addetti ai lavori o agli spettatori appassionati, o almeno ciò non dovrebbe costituirne la priorità. Sono piuttosto due differenti tentativi di richiamare l’attenzione sull’attualità di un’analisi teorica e di un’espressione poetica, due possibilità offerte alle parole e alle immagini di ricostituirsi in film saggio che possano nuovamente mettere in discussione la realtà presente, anche mediante l’attestazione delle reazioni meschine che la figura di Pasolini ha continuamente suscitato. Che tale duplice tentativo necessiti di passare in prima battuta attraverso il cinema e non, come poteva anche succedere, attraverso una trasmissione televisiva, non è un fattore trascurabile. Non solo perché in televisione avrebbe per così dire sofferto del potere normalizzante del mezzo, del minor potenziale riflessivo connaturatovi nonché forse dei frequenti passaggi di spezzoni tratti dalle moltissime videointerviste, utili a mummificare una figura nel passato più che a ridestarne gli spunti controversi, peraltro ulteriormente oscurati sul piccolo schermo dall’enigma complottistico sulla morte di Pasolini, così seducente per lo spettatore borghese indipendentemente dalla realtà dell’accaduto. Piuttosto la destinazione cinematografica di questi recenti documentari è significativa in relazione alla vita e al pensiero di Pasolini stesso, che aveva trovato nel cinema lo strumento migliore per esprimere la sua visione del mondo e conseguentemente il suo impegno politico. Questa stretta connessione tra cinema e politica, testimoniata intrinsecamente dai lavori di Bertolucci, rappresenta forse uno dei nodi concettuali più complessi e irrisolti, nel senso di una possibile produttività segreta che da sola potrebbe richiamare all’approfondimento. Così come accade nel pensiero di Walter Benjamin, autore che ha goduto di grande fortuna in Italia, la connessione tra teoria politica e teoria cinematografica è certa, ma il suo statuto e le sue modalità di sviluppo restano da comprendere e da stabilire. Analoga, pur nell’assoluta differenza, è l’idea che non è semplicemente assumendo l’argomento politico o tanto meno la prospettiva ideologica che il cinema può aspirare all’impegno rivoluzionario, poiché come scrive Pasolini stesso “si può imbrogliare con il contenuto, ma non si può imbrogliare con lo stile”. E qui lo stile significa in definitiva ciò che altrove il regista definisce idea formale, qualcosa di irriducibile ad una mera scelta stilistica dettata dal manierismo, e che invece risponde ad una visione complessiva del mondo.

ImageDunque, volendo continuare su questo parallelo poco giustificabile filologicamente ma a nostro avviso suggestivo se inscritto nel recupero dell’eterodossia marxista, come in Benjamin tale visione del mondo mette in gioco elementi appartenenti alla sfera religiosa, ebraica nel suo caso, di matrice cristiana nel caso di Pasolini. E di conseguenza: se nel filosofo tedesco l’approccio alle cose era essenzialmente ermeneutico, nel poeta e cineasta bolognese è prevalentemente passionale, volendo con ciò intendere non tanto l’appartenenza, in senso corrivo, alla sfera delle passioni, quanto l’elemento fondamentale del patire le cose, dell’essere affetti dagli “oggetti, quanto dalle persone e dalla natura”. È l’atteggiamento sacrale di cui il parla il regista come cifra più intima del suo cinema, nonché, e questo è appunto determinante, come ragione ultima dell’abbandono pressochè definitivo della parola scritta a favore del film. D’altro canto non è possibile liquidare la prospettiva pasoliniana poiché priva di razionalità e di riflessione. I suoi sforzi semiologici ne sono una testimonianza lampante, e dimostrano l’indirizzo di questa riflessione che, dato il momento culturale in cui si dispiega, non appare influenzata dall’ermeneutica ma dallo strutturalismo, dalla semiologia appunto più che dalla filosofia. Il contributo dell’autore alla linguistica e alla teoria cinematografica è assolutamente distinto dalla sua produzione artistica, tanto che sembrerebbe quasi impossibile la coesistenza di uno spirito artistico così istintivo con un’attitudine analitica che aspira a portare il rigore scientifico entro lo stesso orizzonte in cui quello spirito reclama la propria libertà. Eppure tale coabitazione caratterizza Pasolini come artista e come intellettuale, e trova la sua condizione di possibilità nella radice comune dei due poli, la quale risiede, come egli stesso ha avuto modo di dichiarare con estrema consapevolezza, proprio in quell’atteggiamento sacrale, di “rispetto venerante” verso la realtà. Infatti la sua stessa ricerca semiologica, prima linguistica e poi prettamente cinematografica, porta alla conclusione, scandalosa o utopistica per i professionisti della disciplina, che ciò di cui si ha veramente bisogno è proprio una semiologia della realtà (in ciò il corpus delle teorie pasoliniane tradisce forse una tensione filosofica superiore): per Pasolini la realtà, pur conservando la propria ambiguità essenziale, è un insieme di strutture identificabili, anche se non categorizzabili in un sistema finito. Ma la descrizione semiologica della realtà che egli auspica è chiamata in causa da una sviluppata semiologia cinematografica, con cui di fatto potrebbe coincidere. Ai tempi la questione fu molto dibattuta, e il dibattito contribuì ad accrescere gli spunti presenti nei testi pasoliniani. In sostanza, non soltanto rispetto all’ipotesi irrealizzabile o insensata di una semiologia della realtà gli studiosi hanno rifiutato le provocazioni di Pasolini, ma anche in relazione alla teoria cinematografica. Non è un caso che a riprendere ampiamente le argomentazioni del cineasta italiano sarà un semiologo molto sui generis, il filosofo Gilles Deleuze, che sintetizzerà la polemica in una celebre battuta: “Eco rimproverava a Pasolini la sua ingenuità semiologica. Ma è destino della scaltrezza, di apparire troppo ingenua a ingenui troppo dotti”.

ImageIn verità il contrasto più significativo, quello che in questa sede ci può interessare, è quello tra Pasolini e Christian Metz, l’autore che più di ogni altro aveva messo in relazione lo studio del cinema, lo strutturalismo e la psicanalisi. La distanza assoluta si misura in ciò: se per Metz il cinema è un linguaggio e in quanto tale un sistema di segni passibile di una codificazione complessiva analoga a quella operata dalla linguistica generale, per Pasolini si tratta di una lingua della realtà, in cui la realtà non si esprime attraverso simboli codificati ma attraverso se stessa. Egli pone l’accento sulla datità dell’oggetto, sulla sua brutale concretezza, che può funzionare da segno ma solo sulla base di una originaria presenza insignificante, o, come arriverà a dire esplicitando quasi completamente la portata filosofica della sua prospettiva, di un “Essere”. Il cinema dunque viene ad impiantarsi in un mondo pregrammaticale con cui ha un rapporto esclusivo. Non solo: il cinema è talmente interno a questo mondo da porsi come equivalente ad esso, mediante la riproduzione. E in questo senso appunto che Pasolini può portare alle estreme conseguenze il discorso semiologico, invertendone la direzione, dal cinema alla realtà, fino a poter affermare che la realtà non è altro che “cinema in natura”. Il ragionamento ha il sapore di una provocazione, ma non lo è: Pasolini vuole rendere conto della portata rivoluzionaria del cinema fin dentro i meccanismi della percezione umana, e conseguentemente, della stessa realtà percepita. Egli ha ragione di sottolineare, contro il paragone inflazionato tra l’invenzione del cinema e l’invenzione della stampa che ha senso soltanto in un’ottica meramente tecnico-storicistica, come solamente un paragone con la comparsa della scrittura può illuminare sulla destinale svolta costituita dal mezzo audiovisivo. Il passaggio che egli compie dall’attività di poeta e narratore a quella di regista è inizialmente dettato da ragioni che potremmo definire contingenti. Ma in pochi anni il neofita comprende ciò che forse nessuno aveva postulato con convinzione, arrivando a concepire il pasaggio al cinema come assolutamente necessario. La differenza rispetto alla letteratura non è strumentale ma è, per così dire, ontologica, o volendo restare aderenti alla terminologia pasoliniana è ideologica. Ecco dunque che il politico rientra dalla porta principale, chiamato così violentemente in causa da questa definizione. Qui Pasolini auspica esattamente un’ideologizzazione, e una conseguente deontologizzazione: l’uso terminologico è quantomeno curioso perché da un lato chi nella critica cinematografica aveva posto l’accento sulla realtà, rispetto a cui l’effetto di realtà teorizzato da Metz risulta incommensurabile, era stato Andrè Bazin, il quale aveva in un certo senso inaugurato il discorso sull’ontologia dell’immagine fotografica, parlando appunto di realismo ontologico. Dall’altro perché ideologia non ha certamente un valore di per sé positivo all’interno del lessico pasoliniano: infatti, riallacciandoci a quanto scritto in precedenza, il regista è molto acuto nell’indicare il fondamento ideologico della battaglia contro le ideologie, concependo il capitalismo occidentale come l’orizzonte in cui ciò che si è imposta è l’ideologia consumistica. Plausibilmente ciò che egli intende con questo simultaneo ideologizzare e deontologizzare è proprio l’ingresso delle categorie politiche nel mondo della tecnica, di cui pure il cinema fa parte, che di per sé appartiene pericolosamente alla norma, allo stato di cose, al non pensato.

ImageIn questo senso la riflessione di Pasolini non è affatto lontana da quella del cattolico Bazin, anch’egli ispirato dal rispetto religioso per la realtà. Come per il teorico francese, come per i neorealisti o i precursori della nouvelle vague, per il regista bolognese il rapporto con la realtà, l’accoglienza del reale concreto e lo sguardo interno ad esso costituiscono un imprescindibile momento etico, se non addirittura ideologico dal momento che questa accoglienza consapevole presuppone un’ispirazione politica tradizionale, un impegno. Ma se nelle premesse e nello spirito le analogie sono indubbie, nello sviluppo e nelle modalità prettamente filmiche d’intervento sul reale il regista prende decisamente le distanze dalla parola baziniana, così come da tutte le esperienze cinematografiche che l’hanno resa possibile prima, e prolifica dopo. Un esempio su tutti, l’utilizzo del piano-sequenza. Pasolini fa a volte distinzione tra cinema e film, ossia tra tecnica audiovisiva e opere cinematografiche. Concettualmente si può pensare al primo come ad un puro piano sequenza, infinito, e alla realtà come alla coesistenza di un  numero infinito di questi piani sequenza, tanti sono i possibili punti di osservazione; ma proprio per questo il piano sequenza, quando viene assunto a procedura stilistica interna ad un film, mette a nudo l’insignificanza della vita in quanto tale (l’autore ha in mente come caso limite il cinema underground newyorkese, ma la sua argomentazione illumina l’opera di altri registi, anche più recenti, che proprio a tale insignificanza hanno dedicato la propria ricerca). Ma se l’insignificanza e l’ambiguità sono caratteristiche della realtà e della sua pura presenza, nel film ciò che è presente si fa passato, guadagnando così una compiutezza e un senso. È il montaggio a svolgere inevitabilmente questo compito, fissando i limiti del reale nella concatenazione delle inquadrature. Nella vita questa fissazione del senso è compiuta dalla morte, che delimitando l’esistenza permette di comprenderne il valore complessivo isolando epigraficamente i momenti significativi. Dunque non è tanto il cinema, come macchina da presa ideale, a poter essere definito, con Jean Cocteau, “la morte al lavoro”, quanto il film montato, il prodotto finito. Tutto ciò fonda o giustifica la predilezione di Pasolini per la frammentazione della scena e la sua ricostruzione in sede di montaggio, a scapito delle riprese lunghe, per non parlare dei veri e propri piani sequenza. Il suo rapporto viscerale con la realtà non si traduce in un cinema in cui l’alterazione della realtà è negata obbligatoriamente in via preliminare, in un cinema “naturalistico”, verso cui egli non risparmia un certo disprezzo. Al contrario il regista sottolinea la necessità di intervenire sulla realtà mediante la realtà, di determinare un arricchimento semantico non privo di ambiguità attraverso, appunto, il montaggio o il doppiaggio degli attori. Anche questo è un punto singolare, perché l’unità originaria della voce e del volto è spesso considerata come elemento da preservare nel film, fino a costituire una vera e propria estetica della presa diretta. Pasolini invece confessa di non amare affatto la presa diretta, preferendo il doppiaggio, sia di attori professionisti che non, perché convinto delle possibilità che una voce altra, ma parimenti reale, possa liberare interagendo ambiguamente con il volto del personaggio. È il caso di Accattone, in cui il non attore Franco Citti non viene doppiato per ragioni recitative, come nelle abitudini del neorealismo, ma per una precisa strategia nella costruzione del personaggio.

ImageIl neorealismo è in effetti uno dei principali bersagli della critica pasoliniana. Non che l’autore non riconosca al principale movimento di rinnovamento del cinema mondiale il ruolo cardine che la storiografia gli ha assegnato, ma sottolinea come nei film del neorealismo permangano elementi narrativi precedenti. È vero, sostiene, che nei primi film di Rossellini e De Sica si compie una svolta decisiva in direzione della realtà, ma questa svolta condivide fatalmente con il cinema classico la fiducia acritica nella relazione oggettiva. Il problema è che tali autori, come molti altri prima e dopo di loro, si pongono il problema della riproduzione in senso naturalistico, convinti che la registrazione della realtà per come essa si offre alla macchina sia sufficiente a garantire la giustizia del film, oltre che il suo valore estetico. Ma si tratta in un certo senso di una giustizia ancora borghese, che tradisce, nel tentativo di nasconderla, la distanza che la separa dal mondo rappresentato. In un senso più generale è ciò che Pasolini definisce il cinema della prosa, a cui si oppone il cinema della poesia, in una dicotomia schematica che l’autore stesso vorrebbe mantenere sfumata e che pure servirà a rafforzare la distinzione accademica tra cinema classico e moderno, e soprattuto ad ispirare, alcuni anni dopo, la divisione deleuziana in immagine-movimento e immagine-tempo. Non è un caso che nei registi citati dall’autore bolognese figurino cineasti in cui l’impegno politico è stato fondamentale, anche se a diversi livelli. È il caso di Michelangelo Antonioni, o in maniera più evidente, di Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, ovvero, al di fuori del confine italiano, di Jean Luc Godard, che è senza dubbio l’autore chiamato in causa più frequentemente. Il cinema di Godard, in cui non a caso la pratica del montaggio è sottoposta ad un’evoluzione determinante, interviene costantemente sul tempo della narrazione, scardinandone la linearità, rendendo violentemente percepibile la soggettività dell’autore. In questo cinema come in quello degli altri registi citati Pasolini vede una sorta di traduzione cinematografica del discorso libero indiretto, espediente letterario fondamentale nella sua narrativa. Questa “soggettiva libera indiretta” permette di assumere completamente il punto di vista del personaggio, non tanto in modo ottico e mimetico, quanto in senso strutturale, quasi a disegnare una sismografia dei suoi processi mentali. Certo è inevitabile e anzi è determinante che il film appari come la creazione di un soggetto e non come la registrazione oggettiva di un fatto, proprio perché è questo inserimento di una prospettiva a garantire l’ingresso del politico nel film, la sua permeabilità ideologica.

ImageEcco dunque come teoria cinematografica – e parallelamente pratica, sebbene non come applicazione sistematica – e azione politica si saldino in modo stringente. A patto che non si rischi nuovamente di fraintendere la componente ideologica di cui parla l’autore, come assunzione di una lente che permetta di leggere univocamente la realtà e i fenomeni sociali. Il discorso è invece eminentemente formale, e senza dubbio tra i bersagli di Pasolini rientra buona parte del cinema cosiddetto di sinistra. Il montaggio, l’inquadratura frontale, l’utilizzo di obiettivi grandangolari o tele, sono tutti procedimenti attraverso cui il regista, compiendo in questo senso un atto politico, si pone nella condizione stessa del personaggio, che è il ultima analisi una condizione dominata dalla nevrosi, quella nevrosi individuale che è proprio il risultato dell’ideologia consumistica imperante. Questa critica al naturalismo cinematografico, che troverà numerosi discepoli e che si rivela ancora attuale per chi vuole comprendere una buona parte del cinema europeo, corrisponde in un certo senso alla distanza presa dalla sinistra e dal marxismo istituzionale, quello del PCI, in nome di una valorizzazione effettiva delle teorie di Marx applicate al contemporaneo. Frasi come: “la speranza è una cosa orrenda, inventata dai partiti per tenere buoni i suoi iscritti”, rendono sufficientemente conto di quanto le posizioni di Pasolini potessero essere sempre più lontane da quelle del partito comunista, ma anche dalle forze extraparlamentari alla sua sinistra come dalle proteste giovanili, la cui carica di violenza liberatoria viene stigmatizzata dall’autore come un fattore che rafforzerà sempre più il potenziale di consumo, rendendo ad esempio la coppia sessualmente libera, falsamente romantica e inevitabilmente nevrotica, un soggetto prediletto dall’industria capitalistica. Coerentemente con tutta la sua produzione, e forse anche con la sua stessa vita, ciò che al regista interessa maggiormente del pensiero marxista è il concetto di feticismo e mercificazione del corpo umano soggetto al potere, in un processo che egli vede compiersi in modo radicale nel suo tempo e che gli sembra destinato ad assumere proporzioni sempre più inquietanti sotto il dominio crescente della tecnica. Così il desiderio e il sesso diventano orizzonti entro cui è possibile compiere analisi illuminanti sull’intero sistema economico, analisi che artisticamente culmineranno in Salò o le 120 giornate di Sodoma, e che sono così ben documentate nel penultimo documentario di Giuseppe Bertolucci.

ImageProprio gli spunti sulla tecnica, sia come momento rivoluzionario del cinema stesso, sia come nuova concretizzazione del potere sulla vita, costituiscono l’aspetto più profetico del pensiero pasoliniano, in cui si manifesta evidentemente la sua decisiva ispirazione filosofica, tanto paiono risuonare nelle sue parole pensatori come Heidegger o la Harendt, ma anche, in un clima culturale più vicino al suo, lo stesso Foucalt. Un rapporto con la tecnologia che non è, come forse qualcuno potrebbe affrettatamente concludere, quello di un conservatore distaccato, di un decadente che parla in nome di un mondo perduto. Certo Pasolini si pone come addolorato testimone della scomparsa dei valori antichi, ma la sua posizione rispetto al moderno e alla tecnica non è affatto priva di interesse e sollecitazioni proprio in relazione ad una possibile trasformazione di quei valori, in antidoto ai nuovi valori imposti dall’ideologia del consumo (“Dovrò rendere conto io, nella valle di Giosafat, della debolezza della mia coscienza di fronte alle attrazioni, che si identificano, della tecnica e del mito?”). La vera battaglia è contro il tecnicismo della sovranità odierna. E l’attualità di Pasolini si misura nella sua folle capacità, alla maniera di Holderlin, di cercare la salvezza ove si trova il pericolo, poiché questa battaglia, filosofica e soprattutto cinematografica, consiste “nel demistificare l’innocenza della tecnica, fino all’ultimo sangue”.

 


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