Struggersi, dinanzi alle immagini, alle parole, a tante piccole grandi storie in cui la tristezza e la speranza, la disperazione e l’anelito alla vita, convergono in un flusso di incostanti emozioni. Piangere, credere, guardare lontano, sentirsi vicini. Scivolare nel dramma, e (forse) risorgere verso la gioia, sempre che essa sia ancora possibile. Il concorso lungometraggi del 25° Torino Film Festival, per la prima volta diretto da Nanni Moretti, ha messo in mostra un chiaro filo conduttore che ha ricoperto gran parte delle 15 pellicole in gara, come sempre provenienti da tutto il mondo (tranne che dall’Italia): il dolore, e le sue infinite varianti. Il dolore, e le sue molteplici modalità di rappresentazione, portate sullo schermo da registi esordienti o quasi, spesso capaci di raccontare storie realmente toccanti, qualche volta avviluppati in sceneggiature troppo facilmente tendenti alla retorica, e ogni tanto coraggiosi nel creare parabole di netta derivazione autobiografica.
Il dolore della solitudine, dell’incapacità di legarsi alle regole della vita di gruppo, di una sofferenza silenziosa che sfiora i contorni della fiaba: il tutto negli occhi di Josie, gestore di una stazione di servizio nella periferia di una cittadina irlandese, protagonista di Garage, di Lenny Abrahamson, proclamato vincitore del concorso dalla giuria internazionale formata tra gli altri da Aki Kaurismaki, Carlo Mazzacurati e Jasmine Trinca. Il dolore di una morte assurda e improvvisa che un conducente di metropolitana si vede letteralmente piombare davanti, e che stronca tutte le certezze di una vita magari non felice ma almeno serena, e dall’altra parte la voglia di vivere di una giovane insegnante che stringe una relazione segreta con un professore sposato e che poi sente quest’amore sfuggirle di mano. Due anime lontane e sconosciute, che scorrono distanti in montaggio parallelo fino a convergere in una magica notte ricoperta di neve, così da scoprire il valore infinito della solidarietà umana, nell’ottimo, suadente ed elegante The Railroad del coreano Park Heung-sik, il quale ancora una volta dimostra l’innata capacità dei registi orientali di raccontare storie lievi ma ricoperte di dorata poesia. La giuria ha dato riconoscimento al film conferendo il premio come miglior attore a Kim Kang-Woo, e la pellicola si è aggiudicata anche il premio Fipresci. Il dolore di tragedie che hanno colpito sulla propria pelle i protagonisti di The Art of Negative Thinking, del norvegese Bard Breien: un gruppo di disabili, ognuno con alle spalle incidenti e traumi (forse) irreversibili, ognuno con la voglia di lottare e di crederci ancora, e poi di abbandonare la sofferenza e farla finita, e poi di nuovo di coltivare un orticello di speranza. Sentimenti e stati d’animo uguali e contrari, nell’anima collettiva e al contempo individuale di un ensemble pittoresco, quasi surreale, unito dal legame simbiotico di chi sa di essere diverso ma in fondo vale di più dei cosiddetti normali, in un film sorprendente, a tratti esilarante e a tratti durissimo, feroce e sarcastico. Una lieta novità dalla fredda Scandinavia. Di nuovo la (presunta) diversità, una malattia (la neurodermatite) che porta un ragazzo a sviluppare rabbia e pulsioni distruttive nei confronti del mondo che non lo accetta, e che poi per paradosso gli permette di aprire la propria mente e iniziare una graduale e traumatica presa di coscienza verso chi e che cosa lo circonda, nell’imperfetto ma interessante (e fortemente autobiografico) Neandertal, dei tedeschi Ingo Haeb e Christoph Glaser. L’afflizione distribuita in tanti piccoli microcosmi, in tanti frammenti di vite difficili e inclementi: una ragazza messicana che disegna graffiti come valvola di sfogo per una famiglia che non c’è, una coppia che cerca di ripartire da una catatonia intrisa di lacrime per la perdita della figlia, un senzatetto che da un passato importante ha intrapreso una parabola discendente, un anziano che affronta con dignità la silenziosa solitudine pranzando sulla tomba della compagna che non c’è più. Un mosaico di volti che va a comporre The Blue Hour, dell’americano Eric Nazarian, altro film imperfetto ma sostanzialmente riuscito e convincente. E poi ancora, il mostro dell’alzheimer in un melodramma basato sulla caducità della vita, in Away From Her, di Sarah Polley. Perdite improvvise e terribili da cui provare con difficoltà a rialzarsi nel rarefatto e fin troppo rigoroso The Elephant and the Sea, dalla Malesia, esempio di cinema d’autore in cui però l’estetica dell’immagine travolge e parzialmente soffoca lo sviluppo narrativo. Una madre snaturata e ribelle che costringe i figli a interminabili vagabondaggi da un luogo all’altro alla ricerca di una stabilità e di una pace per lei (e per loro) impossibili, nell’australiano The Home Song Stories, il quale spinge il piede sul senso del dolore in maniera troppo superficiale e ridondante. La storia della vita di un uomo, dall’adolescenza alla vecchiaia, attraverso successi e fallimenti, nel frammentato ma a tratti intenso Vogelfrei, film diretto da quattro registi differenti e proveniente dalla Lettonia. Il piccolo grande dilemma del divenire donna, dello scoprire la sessualità, del vincere una sfida verso l’accettazione di sé e verso lo sbocciare di affetti nuovi e sconosciuti, nell’adolescenziale Naissance des Pieuvres, della francese Celine Sciamma. E infine, ancora dalla Francia, l’unione spirituale tra un bimbo e un uomo di mezza età, un legame difficile che cresce e si rinsalda, in Lino, di Jean-Louis Milesi.
Tante forme, tante immagini, tante parole, tanti tentativi per mettere in scena il dolore usando l’oggetto cinema come cartina di tornasole per evidenziare le numerose difficoltà di esistenze traviate e ferite, e nel contempo per dipingere qualche quadro di speranza. Un concorso che ha dimostrato, in quel di Torino, la presenza altalenante ma concreta di tante piccole e valide realtà, in giro per l’universo cinematografico, da scoprire e preservare con cura, affinché il tempo ci regali (o ci confermi) qualche nuovo autore di buon talento e di giusta sensibilità. Lasciando vagare lo sguardo oltre l’orizzonte.
|