Piccoli corti crescono. La IV edizione del Venice International Short Film Festival, svoltasi nell'Auditorium Santa Margherita di Venezia dal 5 al 10 maggio, ha mostrato, qualora ci fosse ancora qualche residuo dubbio, la vitalità di un formato a cui qualcuno si ostina a conferire un'attenzione soltanto superficiale. All'interno di una competizione composita svoltasi con 30 cortometraggi sopravvissuti (a fronte di oltre quattrocento-dicasi-quattrocento lavori inviati all'associazione culturale Artecolica che si premura con estrema simpatia e affabilità dell'organizzazione), il Gran premio della Giuria (presieduta da Mario Brenta, regista e docente di Teorie e tecniche del linguaggio cinematografico all'Università di Padova) è andato al film belga Koro di Guldem Durmaz, storia di una visita all'interno di un carcere in cui la prigionia si stempera in ideale libertà grazie alla potenza poetica di un canto dalle valenze liberatorie.

Al pubblico, al punto da conferirgli il relativo premio, è piaciuto invece Terminal di Aitzol Aramaio, storia fatta di silenzi, corpi che si sfiorano senza toccarsi, occasioni perdute e irrimediabili, quanto conseguenti, frustrazioni in un incontro occorso, procrastinato ed infine sfumato tra le solitudini di un impiegato in un stazione di autobus e una ragazza sbandata. Il film di Aramaio faceva parte di una interessante serie di produzioni basche proposte dal Festival che comprendeva anche il divertente Topeka di Asier Altuna, lavoro che si è aggiudicato il premio "Corti & Web": in un villaggio basco un combattimento tra montoni diventa l'esempio per una battaglia 'a cornate' tra gli spettatori della disputa. Spagnolo è anche (non se ne abbiano a male i favorevoli al separatismo) uno dei corti meglio realizzati dal punto di vista della scrittura e della regia di tutta la manifestazione, Tercero B di Jose Mari Goenaga, nel quale una singolare vicenda di frustrazione, sospetti e morte diventa il pretesto per una sapiente riflessione sulle possibilità di costruzione della tensione attraverso la messa in discussione della certezza del punto di vista e per una altrettanto acuta decostruzione dei complessi meccanismi che presiedono al funzionamento del genere thriller.

Addirittura sconvolgente si è rivelata l'interpretazione della piccola Angela Sabra Djelali (appena otto anni) in La prossima volta di Fabio Simonelli, film nel quale la bambina, attraverso una recitazione matura e calibratissima, offre la possibilità di soffermarsi su una vicenda minimale (nessuno stacco di montaggio, soltanto una panoramica rivelatrice alla fine) che intende rappresentare il labile confine esistente tra apparenza e realtà, tra ciò che sembra e ciò che invece è. Degni di nota anche il cortometraggio sperimentale francese Je m'appelle di Stephane Elmdjian, lavoro che concentra il suo nucleo tematico sulla libertà da ogni coercizione, riuscendo ad estrapolare dalla massa indistinta dei manifestanti di tutto il mondo alcune voci e alcuni volti, rendendo quindi individuale e riconoscibile il desiderio di riscatto di ognuno; e anche, sullo stesso versante tematico, Schenglet dello svizzero Laurent Nègre, ironico falso documentario sulla politica immigratoria e sulle contraddizioni grottesche che da essa si generano.