Fra Dottor Korczak e Katyn: il martirio di un popolo PDF 
Pietro Salvatori   

I grandi maestri del cinema polacco hanno mostrato negli ultimi tempi un’inaspettata vitalità. Se toccava a Zanussi monopolizzare l’autunno italiano con la presentazione di Con il cuore in mano nel corso dell’ultimo Festival del Cinema di Roma, l’inverno è stato decisamente appaltato da Andrzej Wajda, che ha focalizzato su di sè tutte le attenzioni del caso presentando Katyn, che si è silenziosamente e senza campagne campanilistiche di piccolo cabotaggio (e se a Gomorra fischieranno le orecchie non sarà che un bene) conquistato un posto in prima fila quale candidato come Miglior Film Straniero nella notte degli Oscar. Un tipo di cinema latore di atmosfere antiche, caratterizzato da una fattura che agli occhi del pubblico sempre più abituato alla velocità dell’immagine può sembrare datata. Ma è un cinema che fa dell’impegno e della serietà nei propri confronti la vera cifra del proprio senso e della propria esistenza. Con Katyn Wajda riallaccia il filo della riesumazione delle laceranti fratture che hanno contraddistinto il passato della Polonia, una nazione martoriata insieme a tutti i suoi abitanti.

Era il 1990 quando con Dottor Korczak l’autore polacco ritornava sui temi delle più acerbe pellicole anni Cinquanta, quando provava a fare i conti con un’elaborazione del lutto lungi dal compiersi. E lo faceva con la storia di Korczak, un “santo laico”, tenitore di un orfanotrofio, caparbio nella sua missione anche nel bel mezzo della tormenta Seconda Guerra Modiale, che lo costrinse prima all’interno del ghetto a Varsavia, poi nella mattanza di Treblinka, insieme ai suoi duecento bambini. Stessa storia priva di lieto fine, stesso argomento noto a pochi. Quando si pronunciava il nome di Korczak, la reazione spontanea era “Korczak chi?”. Analogamente (e forse con più gravità), oggi per Katyn, e non solo tra il pubblico pagante, la cui ignoranza (nel senso di ignorare l’avvenimento) può essere per certi versi giustificata dalla reazione di numerosi addetti ai lavori: “Ah, il film di Wajda candidato agli Oscar” ci ha detto qualcuno, “e Katyn chi è, la protagonista?”. Vale così la pena ricordare che quando si pronuncia il nome di Katyn non ci si riferisce tanto alla foresta omonima alle porte di Smolensk, nella Russia occidentale, quanto al massacro sistematico che le truppe bolsceviche vi perpetrarono nel 1940, prima di ritirarsi, ai danni di oltre ventimila cittadini polacchi, per la stragrande maggioranza ufficiali dell’esercito.

Un capitolo dolorosissimo per la già travagliata storia di un popolo, una ferita cosparsa di sale per i cinquant’anni successivi, quando gli assassini, tornati sul suolo polacco da vincitori della guerra, imposero il proprio dominio, cercando di scrollarsi di dosso la colpa dell’eccidio, addossandola alle truppe naziste. Katyn è un film necessario. Necessario per visualizzare attraverso le immagini una tragedia che per lungo tempo è stata negata nella sua essenza dai suoi autori. Necessario come tributo ad una generazione che ha portato le tristi vicende del 1940 come una cicatrice indelebile sul proprio volto. Anche se, come osserva Alberto Basciani, docente di Storia dell’URSS e della Russia post-sovietica nell’ateneo capitolino di RomaTre, “non è vero che non si sapesse che la strage era stata compiuta dai bolscevichi. Ammetterlo o no, negli anni della guerra fredda, dipendeva molto dalla coscienza personale e dall’onestà intellettuale di ognuno. Anzi, per di più in Occidente si aveva la consapevolezza che l’eccidio era stato voluto dai vertici del Cremlino, da Stalin e dai suoi più vicini collaboratori. Non sarebbe bastato un semplice ordine di un qualche generale per scatenare una tale mattanza”.

Il regista si muove così manipolando il tempo e lo spazio, segmentando e mescolando senza soluzione di continuità i vari momenti e le varie dimensioni, pubbliche e private, che ruotarono intorno ad una vicenda così sofferente e drammatica. A differenza di Dottor Korczak, Katyn è un film corale. L’elaborazione del lutto avviene a livello sociale, collettivo. Le storie che si incrociano sono le storie di un vissuto popolare che è allo stesso tempo personale e collettivo. Strutturato in alcuni grandi momenti narrativi, Katyn è una pellicola che, fino a venti minuti dai titoli di coda, rimane sostanzialmente irrisolta, quasi che, al pari dei propri personaggi,  faticasse nell’elaborazione del lutto che essa stessa narra. Ma la parte finale riscatta complessivamente l’opera, regalando allo spettatore un momento di altissimo cinema nel racconto straziante della gelida esecuzione di ventimila mariti e padri polacchi, articolata con solidità e potenza, e con un’eleganza che rifugge qualsiasi tipo di voyeurismo. il film travalica il proprio valore meramente cinematografico, ponendosi come opera dalla impagabile forza civile, storica, e documentaristica. “La ricostruzione storica è abbastanza curata – osserva ancora Basciani. Certo, come in tutte le ricostruzioni cinematografiche viene lasciato un pò di spazio all’estro del regista, è normale. Ma la cura dell’aspetto iconografico di un periodo così complesso è sorprendente”. Periodo complesso per la compresenza sullo stesso suolo di due diversi eserciti invasori. “Bisogna tener conto del disorientamento dell’esercito polacco, che si ritrovava tra due fuochi: quello nazista e quello sovietico. Si dice ancora poco che la Polonia fu attaccata da due parti, non fu solo Hitler a dare il via al conflitto, ad averne la responsabilità. I sovietici oltretutto non dichiararono nemmeno guerra al paese confinante”.

Qualche voce, soprattutto in Polonia, ha proposto un parallelo con lo sterminio sistematico che da lì a qualche hanno caratterizzò, come è tristemente noto, l’azione dei nazisti. Teoria che Basciani, profondo conoscitore della storia sovietica, non si sente di avallare: “A ben guardare si trovano molti punti in comune, certo, ma è bene non confondere Katyn con la Shoah. Gli ufficiali vennero uccisi perchè rappresentavano un nemico di classe per gli occupanti bolscevichi, che in qualche modo procedettero ad un regolamento di conti finale di un’inimicizia profondamente radicata tra i due paesi. Se qualche analogia la si vuole trovare, è piuttosto con le tecniche di eliminazione collettiva che i tedeschi utilizzarono in Bielorussia e Ucraina di lì a qualche anno, non certo con lo sterminio sistematico degli ebrei”.

La ferita del passato, la serietà nell’approccio con il mezzo-cinema, il doloroso passato personale di Wajda, che proprio in quegli anni perse il padre. Tutto questo contribuisce ad un rinnovato ritorno, a vent’anni da Dottor Korzcak, sui temi delle vessazioni subite da un popolo, inflitte ad una collettività ma così profondamente sentite singolarmente. Wajda costruisce dunque un film imperfetto e a tratti ridondante, ma che rivela tutto il suo valore nella potenza descrittiva dell’ultima parte e nell’urgenza di raccontare con le immagini un pezzetto della storia recente per tanti, forse troppi, ancora sconosciuto. Il silenzio con il quale si conclude la pellicola urla tutta la propria, dolorosa, verità.

TITOLO ORIGINALE: Korczak; REGIA: Andrzej Wajda; SCENEGGIATURA: Agnieszka Holland; FOTOGRAFIA: Robby Müller; MONTAGGIO: Ewa Smal; MUSICA: Wojciech Kilar; PRODUZIONE: Germania/Gran Bretagna/Polonia; ANNO: 1990; DURATA: 115 min.

 


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