Quello fra letteratura e cinema è uno dei binomi più antichi e consolidati. Tuttavia, l’esperienza ci insegna che se da un lato la prima possiede un patrimonio immenso e variegato cui attingere, spesso il secondo non riesce a renderle giustizia. Come ci ricorda Curzio Maltese dalle pagine de La Repubblica, un vecchio adagio degli addetti ai lavori recita più o meno così: da un bel libro verrà fuori un brutto film; da un brutto libro si può ricavare un bel film. Noi aggiungiamo che se spesso è auspicabile il raggiungimento di un dignitoso ex equo tra pagina scritta e pellicola, talvolta, in casi tanto rari quanto preziosi, si manifesta l’eccezione. Come ben dimostra Il riccio, opera prima di Mona Achache.
Liberamente tratto da L’eleganza del riccio, best-seller dall’inaspettato successo, tanto da spingere l’autrice a vendere anzitempo i diritti cinematografici, il film della Achache è fresco dell’innocenza dell’opera prima e scevro dall’approccio filosofico/analitico dell’originale. La trama è nota: madame Renèe Michel è la portiera finto rozza di un elegante palazzo della Parigi alto-borghese i cui ricchi inquilini, dietro l’apparente quotidianità di agiatezze, nascondono vite tristi e vuote; Paloma è una bambina dall’intelligenza inconsueta e dallo spirito critico tagliente, disillusa nei confronti della vita e per questo decisa a farla finita all’alba del suo dodicesimo compleanno; Kakuro Ozu è un elegante vedovo giapponese, neo inquilino di Rue de Grenelle che, oltre a stravolgere l’aspetto dell’austero appartamento che occupa svuotandolo degli orpelli che la borghesia bene considera intoccabili segni d’eccellenza, azzera le convenzioni sociali che dettano i ruoli e svela la reale natura di madame Michel e della piccola Paloma, avvicinandole l’una all’altra tanto da farle riconoscere.
Autrice della sceneggiatura del film, oltre che regista, bisogna riconoscere alla Achache una notevole originalità nell’approccio, oltre ad una formidabile capacità di sintesi per immagini. Molto puntuali sono alcune trovate che, pur discostandosi dall’originale, mai ne tradiscono l’idea, come la sostituzione del diario su cui la piccola Paloma annota i suoi pensieri con un video documentario da lei stessa girato per catturare e testimoniare i motivi della sua disillusione. Questo diverso approccio fa sì che, laddove nel romanzo le pagine si susseguivano lente e interminabili nella descrizione minuziosa dei pensieri delle protagoniste, cercando motivazioni etico-filosofiche e strizzando l’occhio al lettore intellettual-chic con il suo carnet di citazioni colte, al film bastino poche immagini (si pensi al disegno che Paloma lentamente porta a termine sulla parete della sua camera da letto, che è efficacissimo nello spiegare la complessità del sentire di questa bambina così intelligente e disperata) e battute semplici e incisive (il dialogo tra Reneè e Kakuro in cui la prima afferma “tutte le famiglie felici si somigliano” e il secondo ribatte “ma ognuna di quelle infelici è infelice a modo suo”, efficacissimo nell’illuminare il momento del riconoscimento tra queste due anime affini). Grande contributo alla buona riuscita del film è dato, inoltre, dagli attori protagonisti, straordinari interpreti, misurati e composti, che suggeriscono più che descrivere i personaggi. Senza nulla togliere alla “giustezza” di Togo Igawa, nei panni dell’attempato principe azzurro Kakuro Ozu, non si può omettere di citare la sbalorditiva capacità interpretativa della giovanissima ed esordiente Garance Le Guillermic. Esilissima, tanto delicata nella figura quanto decisa nello sguardo, questa nuova promessa del cinema d’oltralpe (anche se ammette che non ha ancora deciso se continuerà a recitare o meno) offre una validissima spalla alla straordinaria performance di Josiane Balasko, che della burbera Renèe ci fa intuire la preziosità dell’animo in un sorriso appena trattenuto o in un rossore che traspare nello stupore per i garbati modi del nuovo amico.
In questa pellicola, dunque, tutto è straordinariamente misurato, ed è proprio questo il suo maggior pregio: nel semplificare una storia semplice che è stata assurdamente riempita di orpelli, al punto tale da nasconderne e alla fine disilludere la sua “morale della favola”. E fermandosi un attimo a riflettere: non è assurdo che una storia che parla di superamento delle apparenze sia stata raccontata con mezzi così artificiosi? In questo, ironicamente, Il riccio, tanto bistrattato da Muriel Burbery, segue perfettamente la linea guida del romanzo: guarda oltre le apparenze e scova la potenziale farfalla nel bruco.
TITOLO ORIGINALE: Le Hérisson; REGIA: Mona Achache; SCENEGGIATURA: Mona Achache; FOTOGRAFIA: Patrick Blossier; MONTAGGIO: Julia Gregory; MUSICA: Gabriel Yared; PRODUZIONE: Francia/Italia; ANNO: 2009; DURATA: 100 min.
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