50 e 50 PDF 
Fabio Fulfaro   

Ancora cancro, ancora un tentativo di narrare vicende mediche drammatiche stemperandole con l'ironia e il sarcasmo. Dopo il tentativo poco riuscito de Il mio angolo di paradiso di Nicole Kassell, un'altra commedia che vorrebbe essere politicamente scorretta ma che in realtà strizza l'occhio contemporaneamente allo spettatore e al sistema produttivo hollywooddiano. Jonathan Levine (Fa la cosa sbagliata - The Wackness, 2008) trae spunto dalla vera storia patita dallo sceneggiatore Will Reiser, che a vent'anni si vide diagnosticato un Neurofibrosarcoma- Schwannoma dei nervi spinali. 50% le percentuali di sopravvivenza con la chemioterapia e la chirurgia. 50% le possibilità di lasciarci le penne. L'alter ego dello sceneggiatore è Adam, (interpretato con grande misura da Joseph Gordon Levitt, dopo le prove convincenti di Inception e 500 giorni insieme) ha 27 anni, vive a Seattle e lavora in una radio locale. Sembra avere tutto dalla vita: una fidanzata stupenda, Rachael, aspirante pittrice astratta (Bryce Dallas Howard, cosi diversa dalle parvenze fiabesche di The Village), l'amico sessuomane Kyle (interpretato da Seth Rogen, che ha vissuto con lo sceneggiatore Will Reiser il dramma della malattia) che tutte le mattine lo accompagna al lavoro, una casa che tiene maniacalmente in ordine, una famiglia tipica della “middle class”, con madre soffocante e padre demente.

L'irruzione di una malattia così devastante non fa che alterare gli equilibri professionali e sociali del protagonista, costretto a fermare la sua corsa mattutina per un improvviso dolore alla schiena e riferirsi al medico di turno che, con la sensibilità di uno scimmione paleolitico, gli sbatte in faccia la diagnosi e le percentuali di sopravvivenza sulle note di High and Dry dei Radiohead. La fidanzata Rachael regge la situazione per sole due settimane poi, molto pragmaticamente, si consola tra le braccia di un post sessantottino un po' stagionato. L'amico Kyle ne approfitta per rimorchiare un po' di donne con la scusa della pietà e della commozione. La mamma iperprotettiva (una strepitosa Anjelica Houston) prova con gli infusi di tè verde a cambiare la storia naturale della malattia, ma non fa che riversare sul figlio le proprie paure. A controbilanciare queste figure conflittuali che influenzano lo stato di stress del giovane Adam, causandogli onicofagia, arriva la psicoterapeuta Katherine (Anna Kendric direttamente da Up in the Air), che nel disordine cosmico della sua vita trova un punto di riferimento affettivo.

Levine sembra affidare allo “human touch” la possibilità di empatia e di comunicazione: non l'arte contemporanea oscillante tra liberazione (da incontinenza affettiva) e oppressione (da stipsi emotiva), né la letteratura (decine di libri che vorrebbero insegnare l'adattamento psicologico dell'individuo alla patologia tumorale), possono regalare ad Adam un conforto o una possibile via di fuga dai problemi. Ci vuole un urlo munchiano per spezzare le catene dei sensi di colpa e delle aspettative, dei desideri indotti e dei ricatti sentimentali, e ritornare a sentire il calore di una mano sulla tua spalla. Levine conduce lo spettatore a non identificarsi con il protagonista (evitando saggiamente le concessioni melodrammatiche alla Love Story) e a prendere per contrasto le distanze dai personaggi dell'ambiente familiare e sociale che sembrano rappresentare la negazione perfetta su come ci si deve comportare nell'approcciarsi al malato oncologico. Però, pur stabilendo un certo grado di ironia con battute tra il cinico e il grottesco (“non bevo, non fumo, faccio la raccolta differenziata” dice il povero Adam al medico che gli comunica la terribile natura dei suoi dolori alla schiena), non scende in profondità nell'analisi psicologica e nella caratterizzazione delle varie figure, relegandole a un certo clichè generazionale (la mamma rompi, la fidanzata vigliacca, l'amico satiro, la psicologa casinara, i tre bizzarri compagni di chemioterapia che si trastullano con dolcetti alla marijuana).

Nel tentativo di strappare qualche risata su un problema così drammatico, Levine, abile come regista e bravo nel dirigere Gordon-Levitt e comprimari, cade nel tranello della banalizzazione e della semplificazione, incespicando proprio sulla prevedibilità della sceneggiatura. Così il film, invece di acquistare spessore e consapevolezza, si perde nei meccanismi triti e ritriti della commedia, con l'inevitabile ricomposizione di ogni dissidio e la riproposizione di un finale falsamente aperto (sulle note ammiccanti di Yellow Ledbetter dei Pearl Jam) che vorrebbe riportare il film sui limiti sindacali di accettabilità.

Titolo originale: 50/50; Regia: Jonathan Levine; Sceneggiatura: Will Reiser; Fotografia: Terry Stacey; Montaggio: Zene Baker; Scenografia: Annie Spitz; Costumi: Carla Hetland; Musiche: Michael Giacchino; Produzione: Summit Entertainment, Mandate Pictures, Point Grey Pictures, IWC Productions; Distribuzione: Eagle Pictures; Durata: 100 min.; Origine: USA, 2011

 


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