Paolo Virzì e la sua prima cosa bella PDF 
Anna Barison   

A distanza di tredici anni Paolo Virzì, con La prima cosa bella, ritorna nella sua Livorno per raccontare dell’amore tra una madre non convenzionale e i suoi due figli. Vite che si intrecciano in una provincia piena di pregiudizi e in una vicenda familiare lunga quarant’anni. In occasione della presentazione ufficiale della pellicola, Paolo Virzì racconta alla stampa il suo ritorno a casa.

Da dove nasce l’idea di questo film e qual è stata per lei la prima cosa bella?
Dire quale è stata la prima cosa bella per me nella vita è troppo difficile, non saprei. Allora giro la domanda sul film dicendo che ho scelto questo titolo perché nel 1971 Nicola Di Bari e I Ricchi e Poveri cantarono questa canzone a Sanremo, dato che allora si facevano le accoppiate, ed è anche l’anno in cui inizia la nostra storia. Soprattutto è la canzoncina che questa mamma, Anna Nigiotti in Michelucci, canta sempre ai suoi due figlioli per rincuorarli, nei momenti più delicati delle loro vicissitudini. Poi è stato scelto come titolo perché questa frase sembra nascondere anche un secondo significato, ovvero che la prima cosa bella della vita, per il nostro protagonista, un primogenito maschio, è il sorriso di sua madre giovane.

Il film parla appunto dell’amore materno e degli affetti familiari, in una Livorno degli anni Settanta che lei conosce bene. Da dove è nata l’esigenza di raccontare una storia che ripercorre anche le sue radici?
Uno dei temi principali del film è quello della riconciliazione, quindi c’è decisamente qualcosa di me in Bruno. Anch’io sono scappato rabbiosamente a vent’anni da Livorno, portandomi dietro, come lui, un carattere un po’ anafettivo, comico e cronico. Questo è un film che ho scritto di getto insieme ai miei storici collaboratori Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Diciamo che avevamo voglia, dopo un film duro come Tutta la vita davanti, di realizzare una pellicola dove si ride, e anche molto, ma dove non mancano le emozioni. Ci sono dei nodi e degli appuntamenti nella vita che prima o poi tutti dobbiamo affrontare. La famiglia da cui veniamo, il modo in cui siamo cresciuti, quello che ci hanno lasciato di buono o di cattivo, quello che ci impedisce o che ci aiuta a vivere. In particolare parla dell’amore complicato per una mamma un po’ particolare, allegra, frivola, svitata, coraggiosa, sciagurata e bellissima, che però, vivendo in una provincia, suscita anche tanti malintesi, malizie, cattiverie che faranno molto male ai due figli. Il ritorno del figlio adulto diventa un viaggio a ritroso nei ricordi del passato che lui aveva voluto a tutti i costi dimenticare. Questo evento ricompone i fili della storia familiare, in oltre trent’anni, e da tanti furori del passato si giunge ad una struggente riconciliazione.

Era il 1996 quando girò Ovosodo, poi non ha più ambientato film nella sua città. Lei ha citato Pavese, parlando di Livorno e della provincia: “Un paese ci vuole, non fosse altro per il gusto di andarsene via”.
È vero, è da tanto che non giravo proprio a Livorno, città che per me è una benzina, un nutrimento di ispirazione potentissimo dato che è un teatrino di personaggi eccezionali, incredibili, a volte anche ingombranti. Livorno è un posto che mi ha fatto patire, dal quale sono scappato, ma alla fine ci ritorno sempre. Anzi, questo film è un mio ritorno a casa, proprio come il personaggio di Bruno. Come sempre, quando si scrive si pesca dal proprio vissuto, la storia si nutre di qualcosa di autentico. Ci siamo resi tutti conto, una volta visto il film, che conteneva anche un desiderio di fare pace con la vita: in un momento che è di sfiducia, di esilio, si vuole ritornare a una patria, a un luogo caro da cui ripartire. Rimane comunque un’invenzione romanzesca, io non sono Bruno, anche se ho cercato di farlo assomigliare a me imbruttendolo, facendogli perdere i capelli, e Stefania e Micaela non sono mia mamma: è un melange tra vita e racconto.

In questi casi però è facile cadere nella trappola del film nostalgico…
Non volevo fare un film nostalgico, la nostalgia non è un sentimento che mi affascina. Ho sentito che il film è stato anche definito “l’Amarcord livornese”, ma non è appropriato: innanzitutto perché Amarcord è un capolavoro assoluto, e poi lì c’era il confronto con un passato conflittuale, qui c'è soprattutto il presente. Il passato non è raccontato in maniera elegiaca, le basi narrative sono l’incanto e l’innocenza di una madre, magari sciagurata ma anche eversiva. È un omaggio alla forza e alla follia di certe donne, una storia d’amore tra una madre e i suoi figli, uniti, feriti e poi separati, ma che si danno coraggio a vicenda. Tornare a Livorno è cercare quella patria perduta, come diceva Giuseppe Verdi nel Nabucco, quando ci si sente senza fiducia.

Il film è anche un ritratto corale dove si intrecciano tante storie. Come ha scelto queste molteplici personalità per dar vita ad un’armonia narrativa?
Non è stato per nulla difficile, perché si tratta in tutti i casi di attori di grande talento. Abbiamo avuto qualche difficoltà solo nel trovare la somiglianza con gli interpreti più giovani, ma anche in questo caso mi sono giovato di una squadra che è abituata alle mie richieste. È stata una festa, io non ho mai dovuto fare la voce grossa, abbiamo riso tantissimo. Ad esempio, nella scena finale con Anna, nella quale si accomiata con i figli Bruno e Valeria, ci eravamo detti di farla molto allegra, come se Anna fosse ubriaca, e infatti io e Stefania ci siamo ubriacati davvero. A me però è presa la sbornia triste, mentre Stefania non smetteva più di ridere.

A proposito delle due protagoniste, Stefania Sandrelli e Micaela Ramazzotti. La prima una grandissima attrice, uno dei simboli del cinema italiano, la seconda una giovane attrice che sta facendo strada. Che cosa hanno in comune?
Il personaggio di Anna ha dei debiti di ispirazione verso quello che è stata Stefania Sandrelli per il cinema italiano. Questa ragazza bellissima della provincia toscana che accende passioni e che suscita anche qualche fraintendimento. Penso soprattutto a Io la conoscevo bene e a C’eravamo tanti amati. Quello che hanno in comune, a mio avviso, è lo spirito. Trovo che Micaela abbia in comune con Stefania una grazia innocente, un certo candore, una disponibilità verso gli altri e la vita, un essere sexy ma anche buffa, un entusiasmo vitale da bambina, tutte caratteristiche tipiche della Sandrelli che io ho rivisto anche in Micaela.

Ci parla di Marco Risi che nel film interpreta suo padre Dino sul set di un film? Un omaggio alla commedia all’italiana che lei tanto ama…
Questa mamma così curiosa finisce anche a fare la figurante in un film di Dino Risi che giravano da quelle parti in quegli anni, La moglie del prete, con Marcello Mastroianni e Sophia Loren, e così in maniera affettuosa e scherzosa abbiamo omaggiato un grande del nostro cinema. E suo figlio mi è sembrata la scelta ideale per interpretarlo.

In un certo senso, il suo film, così sentimentale e carnale, è presentato da più parti come una sorta di anti-Avatar. Escludendo tutto quanto di politicamente corretto si possa dire, come si affronta la concorrenza di simili kolossal americani?
Vorrei dire, anzitutto, che sono convinto che anch’io andrò a vedere
Avatar e che probabilmente mi piacerà molto. Mi dicono, infatti, che sia un film anti-imperialista e politicamente impegnato: una pellicola, dunque, molto interessante e non limitata alla pura e semplice tecnologia. Del resto, avevo apprezzato molto anche Titanic: mi piacque molto questa storia d’amore impreziosita dal conflitto di classe. Fondamentalmente sono sempre contento quando al cinema c’è a disposizione del pubblico un’offerta multipla, che permetta di scegliere tra un bel film di fantascienza, tecnologicamente innovativo, e una pellicola sullo struggimento di una famiglia che cerca di portare sullo schermo l’umanità. La cosa che noi italiani sappiamo far meglio, visto che sul 3D siamo un po’ meno, diciamo così, “dotati”…

In passato aveva un approccio meno sentimentale, e infatti in questo film non c’è quel sottotesto politico che, solitamente, accompagnava i suoi lavori…

In realtà io credo di essere il prodotto di un equivoco. Ad esempio, alcuni giorni fa ho visto un articolo su Il Venerdì di Repubblica (anche molto lusinghiero nei miei confronti, quindi ringrazio chi lo ha scritto) che titolava, come se fosse una frase pronunciata da me, “Stavolta non parlo di politica e vado dove mi porta il cuore”. Ecco, la seconda parte di questa frase non l’ho mai detta senz’altro! Ma neanche la prima, perché, come cittadino, sono molto interessato alla politica. Poi, però, ho sempre fatto i miei film, che raccontano gli italiani includendo, di conseguenza, osservazioni personali sulla società, più che sulla politica in senso stretto. Quindi, quando m’interpellano su argomenti di natura politica, mi sento anzitutto un totale naïf, uno sprovveduto che non sa cosa dire, tanto che, molto spesso, le mie risposte risultano così intelligenti grazie a come sono riportate dai giornalisti! Insomma, mi sento un appassionato della politica prevalentemente come cittadino o, in parte, come narratore e regista, in veste di testimone. Se dessero a me le chiavi dell’Italia, farei un disastro, quindi preferisco raccontare storie.

 


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