Rabbit Hole PDF 
Eva Maria Ricciuti   

Presentato all'ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, Rabbit Hole è, sulla carta, un film vincente per almeno tre ragioni. La prima, la più intellettuale, è l’originaria derivazione da una piéce teatrale di David Lindsay-Abaire, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2007. La seconda, la più mondana, è la presenza nel cast dell’ultima vera Diva del cinema mondiale: Nicole Kidman, l’algida, peraltro candidata agli Oscar come migliore attrice protagonista per questo ruolo. La terza, la più furba, è il finto allure di sofisticatezza e la raffinata epurazione dal sentimento con cui John Cameron Mitchell tenta di “astrarre” il dolore che sottende al dramma dei suoi protagonisti. Eppure il risultato non convince, perché al termine della pellicola quel che resta è il terribile senso dell’inutilità di ciò cui si è assistito, che è pari al dolore che vorrebbe rappresentare.

La trama è nota: Rebecca e Howie Corbet, ad otto mesi della drammatica morte del figlio Danny, si ritrovano ad affrontare la quotidianità di una vita che nonostante tutto va avanti. Tra negazione del dolore, incomprensioni coniugali ed extra-coniugali, litigi e incomunicabilità (in gran parte imputabile al botox che paralizza la mimica facciale della Kidman), la trama scorre piatta, confezionata come aspirazione alla carica di manifesto cinematografico della catarsi dalle emozioni, ma che purtroppo riesce solamente ad esser fredda in modo quasi inutile. Inutile perché, volendo ad ogni costo sfuggire al luogo comune del “cinema del dolore”, altro non fa, in realtà, che cadervi in pieno. L’argomento, chiaramente difficoltoso, che John Cameron Mitchell ha deciso di affrontare avrebbe istintivamente portato verso il dramma. E, ovviamente, il modo più semplice di sfuggire all’accesso nella rappresentazione del dolore evitando di sfociare nel clichè è quello di lavorare sulla sottrazione. Ma sottrazione non vuol dire, o meglio non dovrebbe voler dire, assenza. Alla lunga, infatti, Rabbit Hole si rileva noioso proprio per questa assenza: assenza di personalità nella regia, assenza di accenti nella recitazione, assenza di uno sviluppo che sfoci in un climax narrativo. Mitchell, più che orchestrare e dirigere, lascia che i caratteri si costruiscano autonomamente, per poi fermarli sulla soglia di quel che sarebbe potuto essere, senza affacciarsi oltre e, soprattutto, senza stimolare la curiosità dello spettatore.

Il rapporto di Rebecca con la sorella incinta e scapestrata, con la madre nevrotica anche lei orfana di un figlio (una Dianne Wiest che, collezionando l’ennesimo personaggio ai limiti della patologia psichiatrica, quasi diventa una caratterista), con l’adolescente “per bene” autore del fumetto da cui la pellicola mutua il titolo e che le ha ucciso il figlio, il conforto portato dal pensiero scientifico e non dalla religione, sono tutti spunti interessanti e possibili vie che l’autore avrebbe potuto percorrere per creare una terza dimensione alla sua protagonista, ma che sfiora e lascia lì. Così come si sarebbe potuto approfondire il difficile e straziante ritratto di uomo “debole” che ritaglia per Howie, personaggio ben più interessante della moglie, cui presta le sembianze Aaron Eckhart. Ed è proprio quest’ultimo che surclassa in classe, spessore e luminosità una ormai opaca Nicole Kidman, troppo compita nel suo ruolo di algida Diva, forse prigioniera del post Kubrick, la cui Rebecca troppo ricorda la Alice di Eyes Wide Shut.

Infine, sebbene sia nostra l’opinione di tolstojiana derivazione che tutte le famiglie felici si somigliano mentre ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo, vorremo chiosare che Mitchell con la sua regia accademica, una trama che arranca troppo, limitata dall’origine teatrale, e un cast manieristico, non è riuscito a rappresentare questa diversità del dolore, ma ha unicamente descritto una realtà banalmente priva di spessore, a dispetto della citata teoria delle dimensioni parallele grazie alla quale la disperata (ma con misura) Rebecca trova la chiave di volta per ritornare a vivere.

TITOLO ORIGINALE: Rabbit Hole; REGIA: John Cameron Mitchell; SCENEGGIATURA: David Lindsay-Abaire; FOTOGRAFIA: Frank G. DeMarco; MONTAGGIO: Joe Klotz; MUSICA: Anton Sanko; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 90 min.

 


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