Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati PDF 
Enrico Maria Artale   
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Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati
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Ci vorrebbe Gus Van Sant, anche qui. Sì, anche l’Italia dovrebbe avere un regista del genere, qualcuno capace di osservare con occhi diversi e rivelatori quei giovani che nel nostro paese ormai non sono altro che materiale buono per le campagne elettorali, per la demagogia, per le truffe e per la camorra, per la chiesa, per gli interessi di un potere qualunque, e per la propria alienazione. Ai giovani americani, ai giovani dell’Oregon, dove vive pressoché da vent’anni, Gus ha dedicato la sua filmografia; forse nessuno come lui ha scelto di concentrare la sua attenzione sui ragazzi, in modo così costante, così radicale, lungo l’intero arco della propria (ormai non tanto breve) carriera. Certo questa attenzione non si è rivolta sempre verso gli stessi identici soggetti, per quanto vi siano delle costanti; variano notevolmente le età dei ragazzi (e delle ragazze, che occupano però sensibilmente, e non a caso, una posizione di minore importanza all’interno dell’opera di Van Sant); da una piena adolescenza liceale, fino alle soglie di una maturità anagrafica ipoteticamente situabile verso i trent’anni, comprese tutte le (innumerevoli?) fasi intermedie.

ImageDa Drugstore Cowboy a Paranoid Park, l’interesse del regista per i giovani non si è mai affievolito, sulla base evidentemente indispensabile di un’affinità profonda che fa di Gus (ormai non più ragazzino, classe 1952) una sorta di Peter Pan del cinema americano, sempre più simile ai ragazzi che la sua cinepresa ha immortalato negli anni, e di conseguenza, possiamo immaginare, sempre più in sintonia con sé stesso (sul set di Last Days porta i capelli lunghi e il cappellino da baseball, confondendosi in modo straordinario con gli attori, con gli amici del cantante Blake/Kurt Cobain). Ma questa gioventù interiore non appare dettata, almeno per quel che si vede nei suoi film, da una forma di nostalgia privata, né forse da un’idealizzazione sconsiderata dell’adolescenza: se è vero infatti che Van Sant ha girato alcuni film ambientati negli anni Settanta, il periodo della sua giovinezza - anni di cui però viene fornito un quadro tutt’altro che mitologico, come accade molto spesso nel cinema occidentale -, non è tuttavia possibile dimenticare la dirompente attualità di film come Elephant, o, con toni apparentemente meno drammatici, Da morire, in cui è indubbia la capacità dell’autore di cogliere l’assoluta specificità dei ragazzi che vivono quel momento storico e quella situazione senza schiacciarli minimamente su modelli precostituiti presi dalla propria pregressa esperienza di vita. Se dunque Gus Van Sant rappresenta il regista che ha scelto di restare ragazzo, ciò non vuol dire che egli abbia scelto di vivere su un’“isola che non c’è”, lontano dalla realtà e dalle persone; vuol dire che ha capito come il suo modo per restare drammaticamente a contatto con la realtà, persino con una realtà inesorabilmente indirizzata sulla via dell’indecifrabilità, non poteva prescindere dall’assunzione di una lente a lui congeniale e al tempo stesso rivelatrice, com’è quella di cui si suppone siano dotate le fasce più giovani della popolazione. Indagare dall’interno, per quanto possibile, il mondo giovanile, ha rappresentato un atto più politico di qualunque presa di posizione, un atto di critica intrinseca alla società e all’individuo; ma critico nel senso più alto, cioè nel senso di un’osservazione soggettiva, analitica e sintetica contemporaneamente, e non nel senso di una condanna di qualsivoglia comportamento. Al fondo del suo cinema profondamente americano c’è un atteggiamento rispettoso, raro tra gli autori americani, verso le persone e le cose. Ecco dunque il perché riteniamo Van Sant un autore imprescindibilmente politico; politico, ma non politicizzato, molto lontano da autori europei che pure si sono dedicati alla realtà giovanile, come ad esempio Ken Loach.

ImageÈ noto come la produzione del regista abbia conosciuto fasi estremamente differenti, soprattutto per quel che concerne la collocazione rispetto agli studios hollywoodiani, con conseguenze dirette sullo stile adottato. D’altra parte, essendo al giorno d’oggi uno dei registi occidentali che più utilizza mezzi strettamente cinematografici per esprimersi, queste decise mutazioni stilistiche si ripercuotono pesantemente sui personaggi, rendendo di fatto assai diversi i giovani protagonisti degli ultimi film rispetto ai loro predecessori. È certamente vero che negli ultimi venti anni, e anche meno, ci sono stati dei cambiamenti radicali nel vissuto giovanile, forse perlopiù incompresi; ed è indubbio che il cinema di Van Sant abbia registrato questi cambiamenti guardando con attenzione all’attualità. Eppure c’è stato anche uno spostamento volontario dell’attenzione da un certo tipo di giovani, che seppur in forme diverse continua ad esistere anche al giorno d’oggi. In definitiva non si può dire se il passaggio da una fase all’altra della sua produzione registica sia stato dettato in primis dal cambiamento dei tempi, dallo spostamento dell’interesse, o dalla ricerca stilistica (un aspetto che l’autore, provenendo da una scuola di avanguardia artistica, ritiene assolutamente determinante e non necessariamente sottomesso alla narrazione). Probabilmente i tre fattori si sono incrociati al punto da rendere di volta in volta improrogabile una svolta nel proprio lavoro, in certi casi assolutamente estrema. Cercheremo di capire perché, ponendo particolare attenzione sulla straordinaria fenomenologia della vita giovanile che Gus Van Sant ha saputo costruire in anni di lavoro.

Nei primi film i protagonisti sono gli outsiders, gli emarginati, individui messi al bando della società per ragioni sociali e morali; rimarranno in ogni caso una costante nella filmografia del regista, ma in modo sempre meno esclusivo e drammatico. Questi reietti sono tali sulla base di una discriminazione, per cui pur non trattandosi di film di denuncia, in senso tradizionale, perché orientate in una sfera emotiva estremamente intima, opere come Mala Noche o Drugstore Cowboy posseggono intrinsecamente un valore di denuncia che proviene dalla scelta del tema, sia esso l’immigrazione o la droga. Ciò pone in evidente contatto questa parte della produzione vansantiana con la cultura americana degli anni Sessanta e Settanta; lo si vede bene dal ruolo repressivo che assume il sistema, mediante le forze dell’ordine, di fronte ad una espressione di libertà leggibile come forma di ribellione solo in quanto minoritaria e alternativa rispetto alla comunità. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva nella cultura di quegli anni, i personaggi non hanno pressoché nulla di eroico e la loro ribellione appare ormai immotivata, priva di qualunque significato politico ed esclusivamente dettata da uno stanco individualismo, a tratti quasi cinico e spesso profittatore. È così per il primo protagonista, un commesso omosessuale innamorato di un immigrato clandestino messicano, che non esita a sfruttare la propria posizione relativamente integrata nella società per ottenere favori sessuali dal ragazzo, finendo però per avere una relazione con il suo amico. Tanto il giovane americano quanto i due ragazzi messicani sono degli emarginati: il primo a causa dell’orientamento sessuale, e in parte anche per scelta, per anticonformismo, gli altri per lo stato di povertà e illegalità in cui si trovano. Nella loro emarginazione c’è una protesta per lo stato di cose, e lo sguardo partecipe di Van Sant appare teneramente divertito dalle gesta dei tre, ma mai si ha la sensazione che questa storia possa avere un futuro, né che la sua fine possa essere gloriosa al punto da scardinare i meccanismi di una società. Piuttosto i tre personaggi sono al pari degli altri figli e vittime della stessa società: né martiri, né eroi, ma comparse in un mondo che continuerà a procedere nella stessa direzione.

ImageAnche Bob, il protagonista di Drugstore Cowboy, condivide questo tratto di isolamento, pur essendo a capo di una gang e quindi in qualche modo immerso in un progetto collettivo. Ciò che lo emargina dalla società, rendendolo parte di una comunità alternativa, è la dipendenza dalle droghe. In modo ancor più marcato rispetto a Mala Noche nel personaggio è assente ogni tratto di eroismo; certo risulta immediatamente simpatico: il suo essere accanitamente perseguitato dalla polizia, la sua bizzarra scaramanzia gli conferiscono qualcosa di nobile, che in un certo senso anticipa alcune caratterizzazioni presenti in Belli e dannati. Tuttavia, Bob non si fa illusioni sulle proprie possibilità di salvezza né tantomeno su un suo ipotetico ruolo sociale; certo la droga rimane un’esperienza unica, la cui demonizzazione ad opera del sistema non è che una deriva strumentale, ma ad essa non viene più affidato alcun potere liberatorio: soltanto il personaggio interpretato da William Burroughs sembra ancora riporre fiducia, anche solo parzialmente, in una funzione sociale positiva della droga, nella società occidentale. Ma Bob preferirà tentare il ritorno alla normalità, giungendo ad uno stato di quieta disillusione che è forse la cifra più affascinante del film intero. Un abisso separa un’opera del genere, meravigliosamente tenuta a distanza dagli eccessi visivi ed emotivi che rappresentano il clichè dei film sulla droga, da film più recenti come Requiem for a Dream di Aronofsky; Van Sant affronta con estrema timidezza ed umiltà le peculiarità dell’esperienza del tossicodipendente, senza cedere in modo facile e ruffiano al sensazionalismo e all’accumulo forzato di situazioni tragiche. Questo gli permette di evitare, anche indirettamente, una posizione moralistica e superficiale (a cui arriva inesorabilmente Aronofsky), sapendo conferire la giusta atmosfera ad una vicenda senza uscita, estremamente dolorosa in determinate situazioni, eppure inaspettatamente pervasa da un soffio di speranza in altre. Due sequenze chiave a proposito: la morte per overdose di Christine, una scena che sfiora visivamente atmosfere metafisiche, e la corsa dell’autoambulanza verso l’ospedale, che apre e conclude il film. In questo lavoro Van Sant si eleva notevolmente rispetto alla visione presente in Mala Noche, inaugurando una delle caratteristiche essenziali del suo cinema: la sospensione del giudizio, e la conseguente collocazione del suo cinema al di là dell’alternativa tra ottimismo e pessimismo.


 


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