Don(')t Look Back PDF 
Marco Doddis   

L’incontro tra cinema e storia della musica ha prodotto spesso degli esiti felici. Quando poi la macchina da presa ha posato il suo occhio sulle icone del rock, cercando di raccontarne la vita e l’opera, ne ha spesso tratto giovamento, andando a sperimentare anche forme espressive originali. Il cinema, cioè, ha trovato nel rock un'efficace via per addentrarsi in sentieri estetici spesso inesplorati. Si veda, a titolo di esempio relativamente recente, l’operazione condotta da Martin Scorsese in Shine a Light: in quel film, il regista newyorchese ebbe la possibilità, anche attraverso complicate soluzioni tecniche, di rendere un concerto qualcosa di più di un concerto. Dagli Stones a Bob Dylan, da Scorsese a Pennebaker: il passo è breve, ma non troppo.

Il menestrello di Duluth, una delle icone della cultura del Novecento, ha sempre esercitato una forte attrattiva sulla Settima Arte. Lo stesso Scorsese ne volle approfondire l’epica, immortalandolo nel lungo No Direction Home: un documentario, come quello che, quarant’anni prima, aveva portato a termine Pennebaker a Londra, nel corso della tournée britannica del cantante. Con Pennebaker, però, lo stile cambia completamente: il suo è un cinema-verità, c’è aria di Nouvelle Vague. Soprattutto, c’è una capacità non comune di mettersi al servizio dell’oggetto di studio, di annullare apparentemente il proprio sguardo in funzione di un superiore interesse pseudo-antropologico. Con Dont Look Back (pare che il titolo originale voluto da Pennebaker fosse scritto proprio così, senza l’apostrofo in Don’t. Alcune fonti, tuttavia, parlano di un grossolano errore tipografico), il regista americano costruì uno dei primi “rock biopic”, affidandosi alla propria cinepresa 16 millimetri a spalla e a uno schema piuttosto semplice: esibizioni in presa diretta (alcune ufficiali, altre in backstage) alternate a stralci di vita di Bob Dylan, circondato dal suo policromo e carnevalesco entourage. Vi si riconoscono Joan Baez, il manager Albert Grossman, Alan Price, musicista degli Animals, e Allen Ginsberg, che compare nella bella (originale, per l’epoca) sequenza iniziale, una visualizzazione del testo di Subterranean Homesick Blues attraverso cartelli sfogliati dallo stesso Dylan. C’è anche l’allora giovane cantante scozzese Donovan, che veniva dipinto dalla stampa come l’alter ego britannico del protagonista: in uno dei passaggi più emozionanti della pellicola, siamo spettatori di una sorta di duello musicale tra i due, in una stanza d’albergo, con Bob Dylan che assiste indolente a un’esecuzione di Donovan, per poi strimpellargli in faccia la sua superiorità con It's all over now, baby blue.

Ciò che appare evidente, a una prima analisi, è che l’intento documentaristico di Pennebaker travalica i confini del mito Dylan. Lui, certo, è al centro della scena, con i suoi occhiali neri, il suo atteggiamento ora burlesco ora polemico, le sue velate fragilità. Tutto intorno, però, è raffigurato un paesaggio straordinario, in cui risaltano tanti elementi rappresentativi di un’intera epoca. L’autore, cioè, mostra in controluce il mondo che ruota attorno alla star e che produce quelle manifestazioni tipiche della cultura degli anni Sessanta. Lo spettacolo, perché di spettacolo si tratta, benché i suoi attori ne siano protagonisti involontari, non può che svolgersi nella Swinging London, nell’ombelico del mondo: c’è la cricca, al tempo stesso dorata e alcolica, di una generazione straordinaria di musicisti (nel film si sente anche “profumo” di Beatles. Il gruppo di Liverpool, infatti, fu presente durante parte delle riprese, sempre al di qua della macchina da presa); c’è un’ondata nuova e inedita di divismo, che coinvolge trasversalmente il mondo delle arti più popolari (nello sbarco di Dylan a Heathrow, nella sua conferenza stampa “lounge”, nelle automobili messe in moto in fretta e furia per sfuggire ai paparazzi, non è azzardato rivedere il percorso di Anita Ekberg ne La Dolce Vita); ci sono i manager, quelli che, dietro le quinte, muovono tutti gli ingranaggi; c’è un pubblico nuovo, composto soprattutto da giovani che si strappano i capelli e fanno le poste sotto l’albergo della star; c’è una nuova dialettica tra le star stesse e i media (si veda il vero e proprio dibattito intavolato tra Dylan e un intervistatore, il corrispondente londinese del Time Magazine).

The Times They Are a-Changin', canta il menestrello. E questo, nel documentario, risulta l’aspetto più significativo, assai più della rappresentazione della sua persona, per altro incompleta. Se, infatti, dovessimo limitarci a leggere in Don(')t Look Back solo una pagina della biografia di Bob Dylan, ne verremmo presto annoiati. Per fortuna c’è molto altro. C’è qualcosa che ci colpisce al cuore più che agli occhi, un reportage che si fa documentario e che, dopo più di quarant’anni, assurge allo status di documento storico. Cate Blanchett, Todd Haynes e il suo I’m Not There (2007) ne sanno qualcosa.

Titolo originale: Dont Look Back; Regia: D.A. Pennebaker; Sceneggiatura: D.A. Pennebaker; Fotografia: Howard Alk, Jones Alk, Ed Emshwiller, D.A. Pennebaker; Montaggio: D.A. Pennebaker; Produzione: Leacock-Pennebaker; Durata: 96 min.; Origine: USA, 1967

 


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