Bergamo Film Meeting 2001 - The Wicker man e Les yeux sans visage: due favole "per adulti" PDF 
di Mauro Brondi   

Robin Hardy e George Franju tentano l'impossibile: risvegliare attraverso il cinema il bambino che è in noi; o meglio: risvegliare le paure e i disagi che da piccoli vivevamo, dentro la sala buia, davanti a immagini incontrollabili, enormi.

I modi sono opposti: The Wicker man (1973), film invisibile in Italia fino a oggi, gioca su toni ironici, grotteschi, spaventosamente surreali, Les yeux sans visage (1959), splendido horror-nero, limpido nella sua pazzia, ci introduce in un incubo attraverso un'ossessione tanto spaventosa quanto freddamente razionale.

Il film di Hardy è un salto nel passato verso riti pagani e superstizioni. La ricerca di una ragazza scomparsa da parte di un poliziotto, rappresentante della legge (religiosa e culturale) in un'isola delle Ebridi, si trasforma in un viaggio alla scoperta di una popolazione pagana, che cura la faringite mettendo i rospi in gola (magia simpatetica) e che vive con la natura un rapporto di unione e comunione.

La visione di una realtà fuori dal tempo (e il regista assicura: "Tutte le cerimonie e i dettagli che mostriamo sono o erano diffusi in Inghilterra e in Europa Occidentale") si rivela per il poliziotto (e per lo spettatore) la scoperta di un mondo al confine con il fiabesco. La popolazione dell'isola vive i riti magici, dagli scherzi più innocui alle prove di coraggio mortali, con il candore e la gioia di un carnevale, ma poi si rivela maledettamente seria nel sacrificare e immolare al dio Sole lo straniero (il poliziotto) bruciandolo nell'uomo di vimini (wicker man).

Da un momento all'altro ci si aspetta un risveglio, ma la realtà è questa; l'umanità sembra essere veramente stupida nelle sue convinzioni: il poliziotto muore bruciato inneggiando l'aldilà eterno con furore e disperazione, mentre la popolazione pagana canta, davanti alla struttura di legno, come la folla di Woodstock, piena di amore e di ottimismo, sicuri di una stagione futura migliore.

Lo spirito inglese si rivela in tutto il suo understatement. Hardy, interessato allo studio comparato delle religioni, ha realizzato un film visionario che non concede mai nulla all'ostentazione: è un reportage di un sogno fantastico; o un dettagliato ritratto di una fiaba sognata ad occhi aperti.

All'opposto Franju gioca con l'horror, la fantascienza, la finzione. Il suo bianco e nero è il bianco e nero della notte, dell'ombra, del sotterraneo e, in definitiva, della morte. Il tentativo del dottor Génessier di trapiantare sul volto sfigurato della figlia la pelle (opportunamente prelevata) di ragazze ignare (e freddamente scuoiate) è il tentativo estremo di dare il volto a una Biancaneve o a una Cenerentola perduta e non ritrovata.

Il finale del film è un tentativo di riconciliazione con la natura: la figlia del chirurgo, alla morte del padre e dell'assistente-amante, esce dalla villa liberando le colombe rinchiuse in una gabbia. Ma l'immagine sottolinea l'impossibilità di un lieto fine: la maschera della ragazza che nasconde il volto sfigurato ci dice con terribile verità che nessuna fiaba è ormai possibile.

La ragazza è un manichino, si muove come un automa: nella casa, nel laboratorio sotterraneo, nel bosco (il finale). E' una presenza leggera, quasi fantasmatica, come a rivelare che un corpo senza volto non ha consistenza. I suoi occhi invece sono larghi, sempre spalancati, a osservare un mondo, come il sonnambulo Cesare del dottor Caligari, terribile e spaventoso. A far paura non è dunque la ragazza, figura inquietante di un cinema nero, ma la calma e la precisione del padre, ossessionato dall'idea dell'eterotrapianto, e la disperata assistente-amante (intrerpretata da Alida Valli), che, già operata al volto, segue la causa del dottore per la dovuta riconoscenza ma con la morte nel cuore.

Bellezza e orrore si scontrano nel film: il ritmo lento e ironico non distende, anzi, Franju crea una sorta di crudeltà inevitabile che avanza e che, forse, ogni spettatore vorrebbe fermare. Ma, inevitabilmente, la bellezza di certe sequenze ci spinge a continuare nell'orrore.

 


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