La regola del silenzio PDF 
Marco Doddis   

La regola del silenzio è uno di quei film che fanno bene. Non perchè siano dei capolavori, ma perchè ci parlano del passato e ci costringono a rapportarlo al presente, spendendo più di una riflessione su questa dicotomia. Il passato, nel caso specifico, è quello del cinema americano e quello dell'America tout court. Ispirata all'omonimo libro di Neil Gordon, la pellicola chiama in causa i cosiddetti Weather Underground, o Weatherman, banda di estremisti che si segnalò, agli inizi degli anni Settanta, per alcuni atti di protesta violenta realizzati in territorio statunitense. Erano prevalentemente dei bombaroli, ma qui si parla di una rapina, di un colpo realizzato in una banca del Michigan, che si concluse con l'uccisione di una guardia giurata. A distanza di più di trent'anni, i membri del gruppo, ancora ricercati, si sono mimetizzati nelle pieghe della provincia americana. Quando una ex componente viene arrestata (tra l'altro, mentre sta andando a costituirsi), si mette in moto un ingranaggio che porta allo scoperto colui che viene ritenuto il colpevole di quell'omicidio: si tratta di Nick Sloan (Robert Redford), che ha mutato il suo nome in Jim Grant, è vedovo, padre di una bambina ed esercita la professione di avvocato. Nick/Jim, nell'ordine, rifiuta di difendere in tribunale la ex compagna di scorribande (che è poi Susan Sarandon), affida la figlioletta al fratello e si dà alla fuga. Lo cerca l'FBI, naturalmente; ma lo insegue anche un reporter d'assalto, il giovane Ben Shepard (Shia La Boeuf), che capisce prima di tutti dove e perchè il vecchio Nick stia andando.

Impegno civile, idealismo, crescita morale: quando Redford si è messo al lavoro sulla sua ultima pellicola, doveva avere in mente più o meno questi riferimenti. Tutta la storia non è altro che una rievocazione, in forma più nostalgica che critica, di un passato che non c'è più e che non tornerà. Il regista e attore americano vuole dare forma a un contemporaneo Come eravamo, e lo fa partendo dalla dimensione storica.  Dopo la sua cattura, Sharon Solarz (Susan Sarandon), afferma: "Sbagliavamo, ma avevamo ragione". Come una vecchia brigatista pentita, la donna riconosce la validità delle posizioni assunte in gioventù, opinando, semmai, sulla prassi che ne conseguiva. Dalle nostri parti, l'idea di affrontare questo tema susciterebbe tutto fuorchè scalpore, considerata l'atavica attitudine italiana a litigare sulla Storia, ora beatificando le meglio gioventù andate, ora criticandone gli arditismi. Negli Stati Uniti, invece, specie in un momento come quello attuale, anche il film di Redord può offrire un prezioso apporto per la comprensione di ciò che è stato, per riportare alla luce pagine nascoste della storia a stelle e strisce e per interrogarsi criticamente sul futuro. Sembra soprattutto l'ultimo, l'aspetto che sta più a cuore all'autore. "Che ne sarà di noi?", pare chiedersi l'ex protagonista de La stangata. "Come sarà l'America di chi verrà dopo?". A stimolare lo spettatore nella rielaborazione delle risposte, provvede la creazione di un contraltare dialettico del personaggio di Nick Sloan: si tratta, evidentemente, del giornalista Shepard. Non è azzardato affermare che sia proprio il reporter impersonato da Shia La Boeuf, autore qui di una prestazione attoriale sopra le righe, il reale protagonista della vicenda, perchè nella sua ricerca della verità si sostanzia un vero e proprio percorso formativo.

L'attenzione dell'autore Redford per il mondo giovanile è sempre stata marcata, dai tempi di Come eravamo fino al recente Leoni per Agnelli. I giovani sono la speranza di un idealismo incanalato in percorsi diversi rispetto al passato. Per il regista, quelli del suo tempo hanno chiuso i conti in modo pessimo con il tempo andato: non solo non hanno cocnretizzato le loro lotte, ma le hanno rinnegate, calandosi poi nella società che avevano contestato. Non è un caso che, nella galleria di ex attivisti politici messi in scena, solo uno, quello interpretato da Julie Christie, non è "sbarcato" nel presente. Tutti gli altri si sono integrati alla perfezione nel tessuto sociale americano: c'è chi fa l'imprenditore del legno, chi il professore, chi la casalinga. Uno, addirittura, è riuscito a vivere per decenni nell'ombra, cambiando nome e diventando, in un paradossale ribaltamento delle posizioni, un avvocato, uno che sta dalla parte della legge mentre è ricercato. Nel suo ritorno al passato, Redford si impadronisce di un altro piatto forte degli anni Settanta e, soprattuto, del cinema che ha raccontato quegli anni: il giornalismo d'inchiesta. A nostro avviso - non lo diciamo per compiacimento corporativistico - è proprio qui che spende la riflessione più interessante. La domanda è: esiste ancora il giornalista poliziotto, il watchdog, l'investigatore con il taccuino? Insomma, ci sono ancora i tipi alla Bob Woodward, uno che lo stesso Redford interpretò in Tutti gli uomini del presidente? Stando a guardare il personaggio di La Boeuf, sembrerebbe di sì. Il suo Ben Shepard non si ferma un momento: annota, studia, confronta, chiede. Ora, le possibilità sono due: o Redford non conosce i cambiamenti avvenuti nel mondo dell'informazione negli ultimi vent'anni (non crediamo), oppure intende dimostrare, forse un po' idealisticamente, che il giornalismo fatto alla vecchia maniera rimane il migliore. Propendiamo per la seconda: Ben non vive fuori dal tempo; anzi, utilizza Google e la posta elettronica, ma, non per questo, dimentica le basi del mestiere. Insomma, anche nel 2013, quando, spesso, si autodefinisce giornalista quel personaggio che sta tutto il giorno su Internet, "copiaincollando" le notizie, senza verificarne nemmeno le fonti, uno scoop rimane sempre uno scoop. E si può fare il giornalista in modo moderno anche senza passare il tempo a "twittare" presunte bombe (a tal proposito, significativa è una battuta rivolta da Ben a una sua ex fiamma che lavora per l'FBI e che lo ha appena invitato a smetterla di ficcare il naso e ad andare a casa per "cinguettare" comodamente on line: "Non uso twitter", le dice).

Anni Settanta, dicevamo. C'è una componente del film di Redford non convince appieno. L'aspetto propriamente filmico, che, in una pellicola, conta almeno per il 60-70%, è quello su cui sono state compiute le scelte più discutibili. La sua regia non è sapiente come in altre circostanze e, dopo una partenza ottima, si perde un po' per strada. Anche la gestione del ritmo conosce alti e bassi, prigioniera forse di quel tentativo, non del tutto riuscito, di appropriarsi di certo cinema a lui caro (Pollack, Pakula, Lumet). Infine, le scelte attoriali. Forse, voleva farci osservare anche in questo modo i segni del tempo che scorre; forse, voleva suggerirci che, sì, anche l'America si è fatta il lifting, ma non le è riuscito granchè bene. Fatto sta che l'idea di presentarci Nick Nolte come l'ultimo dei camionisti del Kentucky o Jessica Lange con indosso una maschera irriconoscibile di botox, non è stata proprio vincente. Così come mettere in scena se stesso, con una figlia di dieci anni e, soprattutto, sempre goffamente di corsa, per sport o per necessità, sembra rivelare una verità che non farà rumore: Redford, come tutte le persone normali, non è felice di invecchiare.

Titolo originale: The Company You Keep; Regia: Robert Redford; Sceneggiatura: Lem Dobbs; Fotografia: Adriano Goldman; Montaggio: Mark Day; Scenografia: Laurence Bennett; Costumi: Karen L. Matthews; Musiche: Cliff Martinez; Produzione: Voltage Pictures, Wildwood Enterprises, Brightlight Pictures, Kingsgate Films, TCYK North Productions; Distribuzione: RaiCinema, 01 Distribution; Durata: 125 min.; Origine: USA, 2012

 


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