Italia, paese di (e)migranti PDF 
Umberto Ledda   

L’Italia, per tradizione e luogo comune, è posto di migranti. Piantata come un chiodo al centro del mediterraneo, ovvio punto di passaggio per chiunque, tra Africa e Medio Oriente, voglia puntare a nord verso le ricche terre dell’europa, benedetta peraltro da un clima meraviglioso, vero e proprio zerbino geografico e di civilità, è da sempre uno dei luoghi, in Europa, più affollati di gente fuggita in cerca di fortuna da uno qualsiasi dei paesi meno stabili, meno pacifici, meno ricchi che le stanno intorno. E, allo stesso tempo, essendo della Magnifica Europa uno dei luoghi relativamente meno stabili, meno ricchi e meno felici, è storicamente un luogo di partenza: l’America soprattutto, ma anche i paesi in cui si stava meglio in Europa, tipo Francia e Germania. È un’erranza continua che solleva questioni sul piano pratico (la ricchezza del melting pot - questi bastardi ci fottono il lavoro - le radici cristiane infangate da questi infedeli - bisogna aiutarli perché, appunto, cent’anni fa su quelle navi stracariche di disperati c’eravamo noi diretti verso New York e Buenos Aires e ci sembrava appena il minimo che una volta arrivati ci accogliessero e ci dessero una seconda opportunità - gli immigrati puzzano - non c’è posto per tutti qui in Italia - dobbiamo volerci tutti bene - eccetera, eccetera), e anche su quello più astratto e simbolico: la doppia natura dell’Italia, paese da sogno, da raggiungere a costo di perdere tutto per molto abitanti di paesi dell’est Europa, dell’Africa e dell’Asia, e contemporaneamente luogo di povertà atavica da cui sfuggire noi stessi, per finire da emarginati in posti più ricchi, maltrattati esattamente come oggi noi maltrattiamo i nostri immigrati. L’immigrazione e l’emigrazione, e il relativo bisogno-necessità-opportunità di venire a patti con culture aliene sul nostro stesso territorio, sono vicende che coinvolgono, al di là dei dati economici e sociali, tutti gli aspetti umani più importanti: i sogni dei popoli, le aspettative di realizzazione, il diritto alla felicità e all’accettazione. E finiscono col toccare tasti dolenti dell’animo umano, più che della sociologia: la paura dello straniero, la diffidenza dell’apertura, il terrore di perdere se stessi.

Ogni evento, ogni tendenza storica di una qualche importanza finisce per avere una sua immagine simbolo: l’immigrazione, per l’Italia, è rappresentata iconicamente da una nave scalcinata, di fabbricazione italiana, carica di gente arrampicata e appollaiata un po’ ovunque, anche nei luoghi più impensabili, dall’aspetto bizzarrlo di un alveare brulicante. Attraccata clandestinamente nel porto di Bari, nel 1991, la Vlora portava con sé un paio di decine di migliaia di albanesi in fuga (erano i tempi successivi alla caduta del blocco sovietico, e tutte le nazioni ex comuniste non passavano un gran bel periodo). Un’immagine inedita, sconvolgente: perché se ci si può indignare o immusonire per l’astratto pensiero, suggerito da qualche telegiornale o da qualche sondaggio, della nostra cara bella patria invasa e calpestata da masse senza volto di uomini senza dio e senza legge, la vista di quei disperati che si tuffavano in mare pur di raggiungere la terraferma, e che non sembravano criminali quanto semplicemente persone, aveva una potenza che metteva in discussione, con un semplice colpo d’occhio, ideologie e controideologie, pro e contro economici e politici (oltre a sollevare, a un’analisi appena più approfondita, un curioso dilema etico: noi italiani l’abbiamo invasa, l’Albania, cinquant’anni prima e con le armi, abbiamo il diritto di ricacciare indietro 'sti tipi che di armi non ne hanno?). Erano stranieri privati dell’alone temibile a cui di solito si associa l’immagine dello straniero: poveracci che chiedevano aiuto. Un’immagine così epocale che, com’è ovvio, finì subito al cinema, nell’inventario delle immagini simbolo, capaci da sole di rappresentare se non un’epoca, almeno uno dei suoi aspetti salienti.

Gianni Amelio la riportò nel finale di Lamerica, che raccontava l’emigrazione albanese -  emigrazione, appunto, nel senso di vista dall’Albania - descrivendo un paese allo sbando, impoverito, a pezzi e rigonfio di televisione italiana su cui intelaiare le proprie aspettative e la propria ricerca di salvezza. Il sogno dell’Italia come dell’America, una prospettiva illusoria che caricava la raffigurazione della nave di disperati di un’amarezza quasi ironica. E quella nave, o meglio, quell’immagine di nave, col tempo stemperatasi nelle riprese televisive di migliaia di navette e gommoni che nel frattempo hanno raggiunto l’Italia (o non l’hanno fatto, spiaggiando cadaveri di migranti sulle radiose coste del Bel Paese), non ha perso comunque il suo valore simbolico e iconico. E infatti il cinema continua a tornarci, a chiedersi cose, a indagare la sua valenza simbolica e rivelatoria. La nave dolce, di Daniele Vicari, torna vent’anni dopo, non più come narrazione ma come documento, raccontandola dall’interno e con crudezza, senza fermarsi al buonismo paternalistico che di solito si oppone al gretto razzismo di chi vorrebbe cannoneggiare i barconi. Vicari lavora di montaggio sulle immagini televisive dell’epoca e sulle voci di chi sulla nave c’era, e racconta l’orrore nell’orrore della violenza e della sopraffazione dei disperati sui disperati, accanto agli ovvi spezzoni sull’inaffidabilità e sulla stupidità a volte mostruosa della autorità italiane. Uno di quei film utili e necessari al di là delle questioni artistiche: sociologicamente e storicamente, che riprende e storicizza una volta per tutte un evento simbolo dell’immigrazione a cavallo fra il ventesimo e il ventunesimo secolo, che a sua volta è uno dei tasselli più significativi del complesso mosaico del mutamento epocale che sta coinvolgendo l’intero Occidente.

D’altra parte il tema dell’immigrazione e del rapporto con lo straniero, nel cinema italiano, è presente davvero un po’ ovunque, e non solo nei territori del cinema più o meno militante (da Andrea Segre in poi), coprendo in realtà tutto lo spettro cinematografico possibile. Com’è naturale, ci sono i film drammatici e comunque impegnati: Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Terraferma di Crialese, o L’orizzonte degli eventi, sempre di Vicari, che fin dal titolo, preso in prestito alla fisica, punta sulla metafora morale, verso una lettura sociologico-filosofica sulla natura dello straniero e dell’estraneità stessa (in fisica l’orizzonte degli eventi è il punto che delimita ciò che può uscire da un buco nero da ciò che, una volta oltrepassato questa sorta di confine, non può più uscirne, e pertanto non ha più la possibilità di essere osservato dall’esterno: parallelamente il tema dello straniero - il film è ambientato nei laboratori di fisica nucleare sotto il Gran Sasso, sotto gli scienziati, sopra i pastori immigrati, gli uni ignari degli altri - diventa una specie di derivazione simbolica della difficoltà di conoscersi, di avvicinarsi). O, ancora, film che trattano il rapporto simbolico con lo straniero in maniera più dimessa, intima, meno magniloquente, rivolgendo lo sguardo verso situazioni di minore portata sociologica ma più lucide sul piano psicologico: come Il vento fa il suo giro, dove il rapporto fra una minuscola comunità sperduta nelle valli piemontesi e il forestiero francese diventa simbolo del naturale rigetto psicologico che ogni società prova per ciò che non conosce, e di cui istintivamente diffida. Ma nel cinema italiano un tema è davvero radicato solo se ci si fanno su delle commedie: e qui il rapporto con lo straniero, insieme con i temi più espliciti di razzismo e migrazione, sono declinati in tutta una serie di versioni più o meno buoniste, con il loro buon messaggio di tolleranza e amore e fratellanza: da Bianco e Nero della Comencini, superficiale e didascalico quanto basta, o Cose dell’altro mondo, che la butta sul paradossale con una trovata un po’ sempliciotta ma efficace (ripresa da un film americano di qualche anno precedente, A day without a Mexican): d’un tratto gli immigrati spariscono, rivelando quanto, in realtà, gli italiani non possano farne a meno e come, nonostante tutto, l’integrazione sia necessaria per entrambe le parti. Eppure, se da una parte i film “drammatici” soffrono spesso della mentalità tipica del cinema civile italiano, eccedendo nella sociologia e indulgendo nell’ideologia - e patendo quindi alla fin fine nell’efficacia della fruizione -, quelli più leggeri non vanno oltre un utilizzo semplicistico, televisivo del tema: un argomento sulla bocca di tutti che diventa quindi materiale buono per scherzarci su, senza azzardare riflessioni che vadano oltre gli slogan e la retorica.

Fra l’altro, una delle cose più curiose è che fra tutti i film italiani dedicati all'argomento gli unici ad avere avuto davvero un successo importante sono ancora quelli che parlano di immigrazione interna: Benvenuti al Sud e il fratello gemello Benvenuti al Nord (anche in questo caso, come Cose dell’altro mondo, ripresi da una pellicola precedente, la francese Giù al Nord). Se c’è ancora bisogno di fare un film sugli stereotipi regionali (ed evidentemente ce n’era bisogno, visto l’accoglienza), vuol dire che lo straniero in Italia è ancora il terrone (per il nord) o il polentone (per il sud): segno forse che il nostro paese, ben lontano dall’aver metabolizzato le problematiche nuove della globalizzazione assoluta, fa ancora fatica ad accettare le proprie differenze interne, rinunciando per ora ad affrontare, anche culturalmente, uno dei nodi più complessi e importanti della contemporaneità. Senza contare che basta leggere la pagina dedicata all’immigrazione di Wikipedia, nel paragrafo dedicato al cinema, per scoprire un’annotazione che da sola rivela ancora tutta la strada da fare: “È da notare che la maggior parte dei film sull'immigrazione sono realizzati da registi italiani, non essendoci ancora in Italia una generazione di cineasti di seconda generazione”.

 


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