Il cinema di Jeunet, ovvero come procurarsi la chiave del mondo delle favole con una calamita, del f PDF 
di Davide Venturi   

Tra chi racconta una favola e chi l'ascolta esiste un patto inconsapevole, nel quale risiede, per il narratore, il piacere del raccontarla e per chi ne fruisce, una particolare disposizione al cambiamento. La favola è un po' come una maschera su cui proiettare noi stessi, i nostri sogni o le nostre angosce. Raccontare una favola a volte significa raccontare una parte di noi, nascondendosi dietro un meccanismo narrativo, comunque specchio o agente significante del nostro intimo. Ancora di più, la favola è proporre un nuovo tempo e un nuovo spazio, in altre parole una nuova vita. Dunque proporre se stessi in una nuova versione o proiettare se stessi in un nuovo mondo. Come il cinema.

La favola - il fatto non desta particolare meraviglia o clamore - è il modello narrativo più utilizzato dal regista francese Jean-Pierre Jeunet, il quale, nei suoi film, gioca e si muove sospendendo il racconto tra realtà della favola e favoloso della realtà. Ma il favoloso e la favola costituiscono lo scarto, hanno la funzione di una buccia d'arancia. La letteratura del Novecento ha insegnato che chi si ferma ai sogni, chi crede ad un altro mondo parallelo e personale, altri non è che uno scarto egli stesso, o un idiota, come direbbe Dostoevskij. Ma nel mondo personale di Jeunet, trovare il fantastico nella vita costituisce una traccia del sentimentalismo dei suoi eroi, personaggi che credono ancora alle favole o al favoloso della vita, perché altri non sono, come egli dichiara, che Jeunet stesso. Giocare con la memoria soggettiva di ognuno dei suoi personaggi, con il loro passato, ci apre sul confine tra la realtà e la sua interiorizzazione, terra di mezzo tra mondo dei viventi (come la società comanda e impone) e mondo dei sognatori, degli "scarti" umani. Gli eroi di questi film sono infatti disadattati perché sognatori, a volte (e per questo) sono mostri come il Quasimodo di Notre-Dame de Paris, in tutto e per tutto figli di una narrazione tetra e grottesca che appartiene alla cultura popolare. Ma a differenza del personaggio simbolo e feticcio di numerose costruzioni fiabesche, i disadattati di Jeunet sono tutto sommato dei vincenti in amore. In ogni storia qualcuno, nonostante la loro apparente diversità, si innamora di loro. In La cité des enfants perdus Miette (Judith Vittett, copia bambina di Audrey Tatou) si innamora del gigante buono One, in Delicatessen la violoncellista Julie si innamora di Louison, clown disoccupato, in Le fabuleux destin d'Amélie Poulain la protagonista si innamora di Nino, un ragazzo timido che colleziona le fototessere lasciate nelle macchinette automatiche del metrò e nell'ultimo Un long dimanche de fiançailles la zoppa Mathilde vive una storia d'amore da favola con le incursioni e le ingiurie della realtà della guerra.

I film di Jeunet sono, in fondo, film costruiti su personaggi che, nel corso della narrazione, trovano ciò che per loro costituisce lo scopo di tutta una vita. Testardi, cocciuti e inguaribili ottimisti, perseverano nel loro scopo e ci regalano, in quanto istanze agenti, le loro storie, le loro favole, le loro vite. E questa nuova vita, fondata sul raggiungimento di una meta ben precisa, si intreccia con la macchina narrativa. D'altra parte poteva apparire sullo schermo un film fatto unicamente di sapori dolci, di occasioni felici, di scopi raggiunti e di quiete interiore trovata? Ovviamente no, a parte le parabole offerte dai film di propaganda. Assurdo, infatti, apostrofare Le fabuleux destin d'Amélie Poulain come riassunto della politica di Le Pen o dichiarare Jeunet stesso come suo diretto affiliato. Pertanto, e di contro, la relazione che si instaura tra i personaggi e la narrazione è di estrema reciprocità. I protagonisti jeunetiani, come abbiamo detto, sono fondamentali per la creazione del film stesso, ma al contempo vengono modellati dai congegni del regista, da un rapporto consequenziale "a maglia di bracciale" che è il suo stile personale. In un certo qual modo torturati dagli eventi, ma, come in ogni favola che si rispetti, salvati nel finale. Non è il mondo di Le Pen che interessa a Jeunet, ma quello delle fiabe, cioè il proprio.

Ciò che distingue Jeunet è la modalità con cui gestisce il racconto. Egli è autore di vere e proprie "sinfonie narrative" che sembrano, nella loro concezione e struttura, rimandare tutte, esclusivamente, a se stesse. Si ripropone allora con forza il tema dell'estrema macchinosità espositiva che il più delle volte si traduce, nel cinema di Jeunet, in storie composte ad ingranaggi, spesso incomprensibili nella loro estrema complessità, ma che il regista francese invita a fruire "stando sulla superficie". Il cinema di Jeunet è l'apparenza allo stato puro, non c'è bisogno di andare oltre. La semplicità con cui il regista francese entusiasma e seduce il suo pubblico risiede nel lasciar funzionare da sé il mondo fantastico da lui stesso creato. Come corollario - presente nello stesso mondo filmico di Jeunet - si verifica talvolta che il fulcro dei suoi film diventa il meccanismo stesso: tutto viene spostato per creare una sinfonia di ingranaggi. Ecco, in quel preciso momento la scena non funziona, è macchinosa a tal punto da non scivolare via con il resto, per restare fissata e visibile. La capacità massimale di Jeunet coincide invece con la sua abilità nel sottomettere i complicati congegni narrativi e visivi, le assurdità di un mondo-cartapesta (ma comunque realistico e perfettamente funzionante), alle dominanze sentimentali, al senso del dovere e dell'amicizia. Che altro non sono se non i valori che contraddistinguono il mondo delle fiabe dalla realtà. Se i fratelli Coen e Tim Burton narrano favole nere, puntualmente scandite dall'essere umano che conosciamo, assetato di potere, denaro e sesso, ma con sfumature e giustificazioni morali, Jeunet, con il suo ottimismo, è fedelmente ancorato alle tonalità forti, o bianco o nero, senza scale di grigi. Così come nelle favole, i suoi personaggi o sono buoni o sono cattivi. E in un film di Jeunet i buoni trionfano (se di lotta si tratta) o comunque i sentimenti hanno la meglio.

Accade anche che, oltre all'intreccio narrativo, siano i personaggi stessi a ragionare come il loro creatore. Si pensi alla mirabile sequenza in cui la banda dei bambini perduti de La cité des enfants perdus cerca di procurasi la chiave oltre una porta che costituisce uno scoglio insormontabile. La successione di micro-azioni, ognuna delle quali innesca la successiva, permette ai bambini di raggiungere il proprio obiettivo. Da prima grattugiano del formaggio per soffiarlo oltre la porta dove giace la chiave. Poi annodano ad un topo una calamita. Il topo, attratto dal formaggio, arriva vicino la chiave che, attirata dalla calamita, viene trascinata dal topo. I bimbi lanciano un gatto oltre la porta, in modo da far ritornare sui suoi passi il topo con la chiave desiderata. Il cinema di Jeunet è, pertanto, cerebrale nella tecnica di narrazione, senza mai abbandonare tuttavia il pathos emozionale e sentimentale, spesso rafforzato dalle trascinanti colonne sonore (soprattutto le ultime composte da Angelo Badalamenti).

I nomi dei cineasti che si sono indicati sono soltanto alcuni tra i riferimenti necessari cui si richiama direttamente il cinema di Jeunet. Un cinema dolcissimo, discendente da Jacques Tati per la macchinosità degli eventi e degli intrecci, dal mondo dei cartoni animati per la morbidezza e la semplicità con cui narra le storie, da Tim Burton e i Coen, appunto, per la capacità di sovrapporre la favola ad un impianto reale o ancora dai Coen di Mister Hula Hoop, dove la città pulsante e macchinosa, fatta di ingranaggi e luci soffocate si sposa e si prolunga nel panorama di Delicatesssen o in quello de La cité des enfants perdus. I suoi ambienti hanno un funzionamento autoreferenziale in cui tutto si esaurisce, in cui tutto si svolge o ritorna. La pochezza di questi spazi, se non addirittura l'unicità dominante di una location sulle altre (il condominio di Delicatessen, la città circoscritta di La cité des enfants perdus o la trincea di Un long dimanche de fiançailles) sembra sottostare ad una estetica del controllo. La narrazione, consumata in un sol spazio, resta nelle mani del suo creatore che ha così maggior possibilità di controllare i movimenti e i meccanismi di tutte la sua creazione. Ma anche quando la cinepresa si muove in spazi molteplici, dalla Parigi di Amelie alla variabilità di paesaggi dell'ultimo Un long dimanche de fiançailles, le sue storie prediligono ancorarsi in ambienti forti e circoscritti come il faro e la casa sul mare nell'ultima pellicola o il bar e il condominio di Amelie.

Ancora più particolare e ricorrente nel cinema del regista francese è la presenza e l'uso del mondo animale, non tanto come specchio deformante del mondo degli uomini, ma come termine di confronto necessario (come non pensare a Kusturica?). Quella proposta da Jeunet non è una società "animalesca", dove gli animali sono fiere assassine e il loro mondo è quello della paura, come in The Night of the Hunter. Gli animali, al contrario, sono conviventi, coinquilini del mondo. Il cinema di Jeunet è popolato da gatti di campagna, da famiglie di topi o da cavalli che muoiono in guerra come gli uomini, catapultati per aria da bombe e cannoni per poi morire appesi sugli alberi. L'uomo di Jeunet non è un animale. Tuttavia i suoi film, anche se escludono ogni forma di dicotomia tra mondo animale e mondo degli umani, sottolineano come il regno irrazionale degli animali finisca per assomigliare a quello razionale degli uomini. I coinquilini, come gli amanti, tendono sempre ad assomigliarsi un poco, ma nel cinema del cineasta francese la direzione è unica: sono gli animali ad assomigliare all'uomo e non l'uomo agli animali. I cavalli muoiono in trincea tra uomini, senza che gli uomini abbiano imparato qualcosa da loro.

Si è detto che Jeunet privilegia spazi autoreferenziali, cristallizzati, chiusi e statici, dove il viaggio sembra un'esperienza lontana e impossibile, fuori dagli schemi narrativi ricorrenti nei film del regista. Ma il viaggio in Jeunet è una condizione mentale; non è lo spostamento fisico, ma il cambiamento, la crescita dei personaggi. E la favola, tra intrecci e peripezie, tra ostacoli e spinte, porta sempre il lettore all'immancabile happy end. Il viaggio e il finale non si limitano tuttavia ad una parabola educativa e morale, la scenografia di cartapesta rivela un paesaggio reale al cui interno nascono e respirano storie verosimili, avvolte da infelicità indicibili che non sposano la pura estetica della favola. Molto spesso si verifica una perdita, il viaggio si conclude felicemente, ma non senza un danno. Nessuna contraddizione, nessun intento punitivo: il cinema di Jeunet non risponde a dinamiche filosofiche o intenti propagandistici. È semplice e si scrive da solo, con la fantasia di un inventore di personaggi e di storie fantastiche, intrise a volte di malinconia. Esemplare e riassuntivo di questa poetica il finale di Un long dimanche de fiançailles. La protagonista del suo ultimo film è contenta di aver ritrovato il suo uomo, ma non si rattrista al pensiero che egli ha perso la memoria. In fin dei conti hanno davanti a loro tutta la vita, di quale vita poco importa. Nei film di Jeunet si assapora il significato di vitalismo (o vitalità?) atavico/a, dove l'importante non è come vivere, ma vivere. Il suo è un cinema che non si accontenta di raccontare delle storie, ma di suscitare emozioni attraverso le quali creare un confronto reale col pubblico (più adulto che infantile) in un dialogo in cui è impossibile non emozionarsi.

In Un long dimanche de fiançailles è ancora più significativo lo scontro ideale tra l'iperbole della poetica dell'ottimismo e la "legge di Murfy" che si verifica nei giochi di Mathilde con il destino. "Se giro l'angolo e arrivo prima della sua macchina allora lui ritornerà" o nel vagone del treno "Se entra il controllore entro dieci secondi lui è ancora vivo". Il più delle volte sfida persa, ma la legge per cui se una cosa va male allora è destinata ad andar peggio è smentita nel finale, con tanto di scuse della matrigna, che, più radicata nella realtà e meno testarda di Mathilde non l'aveva mai incoraggiata a sperare. Anche se, come i suoi colleghi narratori di favole cinematografiche, Jeunet si rivela crudele nel torturare per tutto il film le sue creature, non li fa perdere d'animo nonostante un'apparente eterna sconfitta. Tutte le scommesse che nascono all'insegna della ricerca di un pizzico di esoterico a cui aggrapparsi si concludono tutte nella peggiore delle ipotesi possibili: con un inganno, con il sapore di un'illusione, con l'arrivo di una macchina, ma non quella desiderata, con l'arrivo di un uomo che finge di essere il controllore, ma non lo è. Avversità, avversità e ancora avversità, ma non bisogna demordere. Il cinema di Jeunet è ancora un cinema carico di morale (e non moralistico, come pensano i suoi detrattori) che si affaccia e si avvicina alla poetica dei cartoni animati di Walt Disney, con meno intenzioni didattiche e più pulsioni vitali e crudeltà reali. La piccola Miette de La cité des enfants perdus riassume perfettamente tale massiccia realtà di confine, oltre il quale si colloca il cinema del regista francese e al di qua del quale risiede l'intento dell'animazione educativa e moralistica della Disney. Miette è infatti una bambina al limite del mondo adulto, cresciuta senza una favola e costretta, già in giovane età, a non credere più all'universo del fantastico. Al contrario One, il forzuto gigante, è l'opposto della ragazza: corpo da adulto, ma credulità e speranza di un bambino. E a cambiare alla fine del viaggio non è tanto il gigante buono - che nel mondo reale sarebbe un disadattato - ma la bambina, che ritorna ad essere tale. Indicativo per gli intenti, sotterranei e mai espliciti, della poetica di Jeunet nel rapporto con il pubblico. Egli costruisce i suoi film come fossero un sogno affinché lo spettatore, al suo risveglio, possa uscire dalla sala tranquillo, riposato, commosso. È cambiato perché ritorna per un attimo bambino, perché crede per un piccolo lasso di tempo alle favole raccontate dai personaggi, perché sogna sulle favole costruite con i personaggi. Perché il cinema deve conquistare, ammaliare e sedurre. Jeunet riscalda le coscienze con un cinema coinvolgente e fantastico, ricordando che il cinema è la macchina del carnevalesco, del meraviglioso, del fantastico.

 


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