Los Angeles. Una notte immersa nelle luci fosforescenti di una città senz'anima. Un tassista sognatore e idealista. Un killer spietato e nichilista, incaricato di portare a termine cinque omicidi uno dopo l'altro. Un viaggio verso la dannazione, verso la morte di una vita senza senso, verso la distruzione definitiva del concetto di sé. E poi un nuovo amore, che spinge l'uomo apparentemente debole a tramutarsi in leone pronto a combattere per la salvaguardia della donna tramutatasi suo malgrado in preda braccata. Il tutto confezionato secondo una trama tipicamente di genere, che rispetta i canoni di un thriller-noir classicheggiante, per una sceneggiatura saldata entro i confini di un'equazione matematica la cui soluzione è alla portata di tutti.
Ma poi, a impreziosire il film attraverso profonde significazioni che vanno al di là della percezione immediata della realtà, ecco il tocco del maestro: Michael Mann. Dopo l'inarrivabile perfezione di Heat-La Sfida, le commistioni tra cinema commerciale e inserti d'autore in Insider e L'Ultimo dei Mohicani, le sperimentazioni narrative e visive di Manhunter e Alì, ecco una pellicola di grande impatto, in cui dialoghi arditi ed esistenzialisti prendono corpo e volto fino a divenire soggetti propri della narrazione, sfidando il buio di una notte ripresa in modo da porre all'occhio dello spettatore un insieme di fuochi d'artificio visivi di rara compattezza e di ancor più rara intensità. Poesia nelle immagini, filosofia nelle parole, maestria di prim'ordine nell'uso della macchina da presa, respiri dilaniati da insicurezze e conflitti interiori, paura e sorpresa, sorrisi e brividi, spari improvvisi nella gehenna della metropoli ed angoscia strisciante…profumo di capolavoro.
Mann ci immerge nelle luci sfavillanti di una Los Angeles mai così familiare e al contempo mai così estranea, ci catapulta in una notte senza fine filtrata da dolly virtuosi e carrelli sfrenati, indugia sui primissimi piani quasi volesse idealmente sfondare la quarta parete che divide i suoi protagonisti ed il pubblico per giungere alla completa fusione degli stessi, muta continuamente la messa a fuoco dell'obiettivo confondendo le parti e mescolando buoni e cattivi fino a giungere all'annullamento di ogni concetto nitido e certo, e naviga nelle avventure semi-kafkiane del povero Max (Jamie Foxx) e del rude Vincent (un ingrigito, inedito e bravissimo Tom Cruise) attraverso un fluire continuo di musiche jazz, disco, rock, elettroniche, che crescono magistralmente d'intensità nei momenti clou e ci immergono ancor di più nella consapevolezza che alla fine di questa dannata notte nulla sarà più come prima.
Ogni sequenza assume contorni difficilmente dimenticabili: gli splendidi 10 minuti iniziali, ebbri di intensità e dolcezza, sviluppati con assoluta semplicità nel dialogo tra Max e il procuratore Annie (Jada Pinkett Smith), un altro personaggio all'apparenza insicuro che sa però trovare dentro di sè le proprie sicurezze, traslando dubbi e tremori in un'aula di tribunale vista come nido protettivo e come dominio in cui sentirsi forti e intoccabili; il perfetto connubio di suoni-immagini-espressioni nella scena all'interno del locale jazz in cui il gangster Daniel (Barry Shabaka Henley), dopo aver idolatrato Miles Davis, vede la propria morte riflessa negli occhi senza pietà di Vincent; la concitata e irrefrenabile sequenza all'interno della discoteca.
L'unico lieve difetto di Collateral è forse una parte finale non brillante per originalità (punto peraltro chiarito fin da subito, siamo pur sempre all'interno di un film di genere), ma per almeno un'ora e mezza ci troviamo di fronte ad un film che potrebbe diventare assai importante nello sviluppo cinematografico del nuovo millennio (un po' come pur con accezioni socio-politiche differenti lo fu Taxi Driver ormai quasi trent'anni fa), nel farci giungere alla consapevolezza che nella società odierna ogni uomo, sia esso un eroe o un anti-eroe, un reduce dal Vietnam senza più un futuro o un ingenuo tassista nero che il futuro riesce solo a costruirselo mentalmente da 12 anni a questa parte, non può far altro che vivere e morire senza un perché, senza un dove, senza lacrime, ma forse pieno di rimpianti.
Perché nelle luci incandescenti e quasi irreali di Los Angeles, nei virtuosistici e ipnotizzanti dialoghi all'interno di un semplice taxi colorato di rosso, nelle note improvvisate del jazz tanto affascinanti perché "non è mai quello che ti aspetti", nell'incontro-scontro e nel crudele legame tra Max e Vincent, nei condannati a morire che vengono eliminati da una lista con irrisoria facilità, in fondo nulla ha una logica. Bisognerebbe soltanto sognare, viaggiare, ridere, e soprattutto vivere, prima che sia troppo tardi.
E' appunto il mondo di oggi, un mondo cinico e disilluso, di cui Vincent-Cruise è in fondo un perfetto rappresentante, un mondo in cui se a Los Angeles, in metropolitana, una persona muore, ci vogliono 6 ore prima che qualcuno se ne accorga.
Ce l'ha spiegato Michael Mann. A modo suo. Magnificamente.
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