Zero Dark Thirty: ambivalenza formale e ambiguità morale PDF 
Piervittorio Vitori   

“Hitler ha vinto la seconda guerra mondiale e non ce ne siamo nemmeno accorti”, scrisse Paolo Cherchi Usai a proposito di Starship Troopers (1). Una citazione peregrina? Non si direbbe, almeno a giudicare dalla facilità con cui è possibile trovare menzione del film di Verhoeven nelle discussioni in rete su Zero Dark Thirty. Le parole del critico italiano, inoltre, paiono riecheggiare quasi letteralmente nel titolo della recensione che del film di Kathryn Bigelow fa Matt Taibbi: “Zero Dark Thirty è l'ultima vittoria di Osama Bin Laden sull'America” (2). Ma se, a distanza di anni, l’interpretazione della frase di Cherchi Usai appare piuttosto chiara e condivisibile (Starship Troopers come inquietante satira di una nazione che avrebbe sconfitto il nazismo solo militarmente, salvo assorbirne ideologia e dinamiche sociali), sembra ben più difficile giungere a un punto fermo nel dibattito che sta investendo l’ultima fatica della regista californiana. Il cuore del problema fa capo sostanzialmente a un interrogativo: l’opera offre un’apologia - o quanto meno una giustificazione - della tortura di stato praticata nel nome di una presunta giustizia collettiva? In compagnia di vari altri recensori, il blogger di Rolling Stone risponde di sì, e paventa i rischi del contraccolpo, in termini d’immagine e di sicurezza, che gli Usa subirebbero all’estero (particolarmente in Medio Oriente) laddove questa lettura della pellicola prendesse piede.

Per approcciare la questione mi pare opportuno muovere però dall’analisi di ciò che Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal hanno dichiaratamente perseguito, vale a dire “la fusione tra il reportage e il genere letterario, offrendo al pubblico un film unico: il film-reportage” (3). Il loro lavoro si propone, dunque, come la prima opera in grado di svelare al vasto pubblico i dettagli dell’operazione che portò all’eliminazione di Osama Bin Laden, ed è innegabile che lo sviluppo di Zero Dark Thirty sia in qualche misura debitore agli stilemi giornalistici (la strutturazione rigorosa dello script, scandito dal succedersi di avvenimenti in cui la dimensione spaziale e quella temporale dell’azione sono sempre evidenziate con chiarezza) e a quelli documentaristici (le scelte stilistiche adottate per la sequenza conclusiva del raid ad Abbottabad). Un’impostazione di questo tipo, per quanto la si possa trovare apprezzabile e coerente dal punto di vista formale, presenta però delle notevoli falle per quanto attiene all’aspetto contenutistico. Un solo esempio: Mohammed Al-Qatani, il terrorista che apparentemente è stato preso a modello per il personaggio di Ammar (il detenuto torturato nelle scene iniziali), avrebbe menzionato il fantomatico Abu Ahmed prima di essere spedito a Guantanamo e lì torturato. E il nome del corriere dello sceicco sarebbe uscito da un interrogatorio condotto - senza il ricorso alla tortura - non dalla Cia ma dall’Fbi.

Sono perciò condivisibili, fin qui, le critiche mosse al film da Taibbi (è sempre lui a segnalare nel suo pezzo la manipolazione dell’episodio, insieme ad altre “licenze” che la sceneggiatura si è concessa); ma condividerne il punto di vista diviene in seguito più arduo. La sua teoria, in sostanza, è che non si può pretendere che il pubblico si emozioni per le sorti dei buoni e parteggi per loro quando questi si fanno così pochi scrupoli quanto ai mezzi utilizzati. Ed ecco il punto: quanto Maya e i suoi colleghi sono veramente buoni? E quanto è davvero possibile provare viva partecipazione nei confronti delle loro azioni? Perché se è vero che, da un lato, Zero Dark Thirty tradisce le premesse di cui sopra, nel momento in cui rielabora con eccessiva libertà il materiale trattato, è vero dall’altro che, anche in virtù di un impianto che strizza l’occhio al documentario, non lo si può certo definire un prodotto di entertainment canonico. Ci sono sì fattori che potrebbero situare il film al crocevia tra il thriller politico-spionistico e l’action movie: il movente della vendetta (la citazione iniziale dell’11 settembre; l’attentato in cui, a metà film, perde la vita Jessica), la convocazione - con indubbia perizia scenica - di figure quali il pedinamento, l’agguato… Ma ve ne sono anche altri che, per la loro gestione, rifuggono dai clichè consolidati. I soldati al centro del climax finale sono figure introdotte appena prima e comunque talmente prive di spessore da risultare meramente funzionali alla vera protagonista, la messa in scena. E un elemento molto forte dal punto di vista simbolico come la bandiera statunitense viene accostato a Maya in due momenti che, confrontati tra loro, sviluppano una produzione di senso spiazzante: l’immagine, infatti, sottolinea prima l’affermazione della donna, quando lei rivendica per sé, davanti al presidente della Cia, il ruolo di chi ha scoperto dove si nasconde Bin Laden; poi, di contro, la sua solitudine, quando rimane sola nel campo militare dopo la partenza degli elicotteri.

Valga poi il paragone con il precedente lavoro della coppia Bigelow/Boal, il pluripremiato The Hurt Locker: quello era un film “caldo”, grazie al costante regime di suspense favorito anche dal fatto che il protagonista - e con lui l’occhio della macchina da presa - si muoveva all’interno dell’azione; qui, al contrario, c’è una maggiore freddezza, dovuta a una soluzione del plot già nota a priori (almeno a grandi linee), a una dinamica per cui la suspense si alterna alla sorpresa (come nel caso dell’attentato al Marriott) e, soprattutto, alla sensazione ricorrente di distanza tra la protagonista e le persone che si muovono (e i fatti che avvengono) intorno a lei. Mentre, infatti, William James aveva una moglie, un figlio, e instaurava un rapporto di cameratismo con i suoi commilitoni, Maya non ha famiglia né vita sociale (quando Jessica la invita a godersi un po’ la vita, l’idea le appare assolutamente aliena). Ci si può spingere a dire che non ha nemmeno un passato né un futuro, giacché da un lato l’unica informazione biografica di cui disponiamo sul suo conto è che è stata reclutata appena terminate le superiori, mentre dall’altro la scena conclusiva chiarisce come, raggiunto lo scopo di eliminare Bin Laden, non abbia idea di cosa fare di sé. La protagonista, insomma, è definita unicamente dal suo obbiettivo, e in quest’ottica si evidenzia di nuovo, come già in quel Tree of Life che l’aveva rivelata, l’“adeguatezza” di Jessica Chastain a dar corpo a quello che più che un personaggio appare un concetto astratto: per Malick la Grazia, per Bigelow la Missione. Perché per Maya la caccia allo sceicco è appunto questo, non certo quella sorta di “vocazione” o di propensione naturale che in The Hurt Locker William metteva in luce rispetto alla sua quotidiana sfida di artificiere. La diversa attitudine della protagonista è dimostrata dalle contraddizioni e dalle resistenze che talora affiorano nel suo agire: inizialmente insiste per presenziare alle sessioni di interrogatorio-tortura condotte da Dan, come a ricercare una doppia affermazione (di sé e di genere); poi però in due frangenti riesce ad ottenere informazioni per altre e incruente vie (nella terza “visita” ad Ammar e in quella all’anziano detenuto, quando ricicla l’approccio verbale di Dan). E si noti come, nelle successive due circostanze nelle quali si trova invece a ricorrere a sua volta alla brutalità (la scena con Faraj e quella con il detenuto nel black site di Danzica), Maya indossi una parrucca: un elemento che, unito alla rappresentazione della (fugace) crisi interiore che si palesa nel momento in cui la donna se la leva, suggerisce l’idea di un tentativo di nascondersi forse più a se stessa che agli altri.

Si ritorna dunque, seppure con uno scarto terminologico, alla questione iniziale: se pure “tifare” in maniera totale e acritica per Maya (cioè per la missione, con i citati aspetti negativi che essa  ha implicato) è impossibile, il film vuole forse giustificarla? E, in questo caso, giustificarla in nome di cosa, se l’obiettivo raggiunto non è definitivo? La morte di Bin Laden non chiude il film, così come non ha chiuso la guerra contro Al Qaeda: Maya se ne va, i soldati rimangono sul campo… Qui meno che altrove paiono esserci vincitori e vinti, e allora la domanda principale e sottintesa è forse un’altra: ne è valsa la pena? Una domanda alla quale il film, in cui l’ambivalenza formale riflette la (accidentale o voluta) ambiguità morale, non sembra poter o voler dare risposta.

Note:
(1) P. Cherchi Usai, cit. in La., Lu. e M. Morandini, Il Morandini, Dizionario dei film, Zanichelli, 2000.
(2) M. Taibbi, Zero Dark Thirty is Osama bin Laden’s Last Victory Over America, in Rolling Stone,
(3) dal pressbook italiano di Zero Dark Thirty.

 


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