Le invasioni barbariche PDF 
Nando Dessena   

Quei geni del male di Matt Stone e Trey Parker, creatori della serie animata statunitense South Park, rappresentano nel loro cartone i personaggi canadesi con delle grosse teste ovali in cui la parte inferiore e quella superiore sono staccate; sovente basta scoperchiarne una per lasciar defluire una fiumana verbale da antologia, più spesso capita invece che gli eroi televisivi nazionali, Terrance e Phillip (Trombino e Pompadour nel doppiaggio italiano) esprimano per altre vie una comicità grezza e becera che consente loro di registrare puntualmente il massimo degli ascolti; il pubblico canadese viene descritto del resto come una massa particolarmente ricettiva alla povertà intellettuale dell’offerta audiovisiva. In totale antitesi al modello delirante appena descritto si posiziona la proposta cinematografica di Denys Arcand, rendendo se possibile ancora più gustosa la parodia di Stone e Parker. In linea con le cinéma dei cugini francesi, la poetica arcandiana si aggancia, almeno sul piano dei contenuti, alla nouvelle vague e a una certa idea di cinema europeo, colto, impegnato su diversi fronti e pervaso di un umorismo verbale nero, gustoso e godibile. 

Il confine tra i termini verbale e verboso è labile, eppure sostanziale. Fondamentalmente si tratta di definire il primo termine come un semplice atto denotativo, mentre si riversa sul secondo una connotazione dispregiativa che fa eco ad aggettivi come prolisso, ampolloso e, a seconda dei casi retorico, ridondante. Le invasioni barbariche (Les invasions barbares, 2003), premio Oscar nel 2004 e David di Donatello nello stesso anno per il miglior film straniero, divenuto ormai una pellicola di culto, oscilla animatamente tra i due poli, riuscendo tuttavia a strumentalizzare la verbosità, a piegarla a proprio uso e consumo. I fiumi di parole sceneggiati dallo stesso Arcand riempiono i fotogrammi di una vivace loquela, un colto scilinguagnolo che spiattella con cinismo misurato e consapevole autocritica le ansie di una generazione, quella della controcultura sessantottina, che si trova integrata a distanza di anni in un sistema che si sgretola progressivamente. Il plot de Le invasioni barbariche racconta la malattia terminale di Rémy (Remy Girard), un professore di storia contemporanea canadese che, dopo una vita dissoluta fatta di relazioni extraconiugali che hanno distrutto la sua famiglia, si trova circondato dalle premurose attenzioni degli amici di sempre e quelle amorevoli di una ex moglie rassegnata e nonostante tutto ancora innamorata. Più distaccato, freddo e rancoroso è il rapporto con il figlio Sébastien (Stephane Rousseau), broker di successo, vera e propria antitesi del padre, rappresentante nel microcosmo della pellicola dell’universo finanziario, che grazie al proprio denaro riesce a lenire l’agonia del genitore comprandogli un’ala dello squallido ospedale pubblico dove Remy sta passando gli ultimi giorni e cure mediche dedicate, come fosse una struttura sanitaria privata. Per alleviare ulteriormente le pene di Remy, una sua vecchia amica riesce a procurargli dell’eroina tramite sua figlia tossicodipendente, e, giunto alla fine, il malato sceglie l’eutanasia per dire addio a una vita che ha sempre amato oltre misura. 

Per Arcand rappresentare il declino dell’impero significa parlarne, con nostalgia, ma anche con la forza di un’ironia sempre in primo piano, mentre si nasconde formalmente dietro uno stile registico asciutto, funzionale alla descrizione corale dei personaggi in un percorso che individuale è solo in apparenza. Il cancro di Rémy si presenta palesemente come nera allegoria della metastasi che distrugge il mondo occidentale, piegato dalla proliferazione di cellule impazzite, annichilito dalle invasioni di barbari anomali. La pressione sui confini è storia passata e, in un mondo in cui solo il denaro sembra poter garantire una vita, ma anche una morte dignitosa, l’infezione è senza dubbio endogena e sintomatica la perdita di valori, di cultura. La morte fisica, ridotta al proprio valore funzionale, è tanto più terribile in quanto vista senza i filtri rassicuranti della religione e della confortante idea del rito di passaggio. Del resto Le invasioni barbariche non si limita a rappresentare soltanto la morte di un uomo: quello che mette in scena è la morte di tutto.

Titolo originale: Les invasions barbares; Regia: Denys Arcand; Sceneggiatura: Denys Arcand; Fotografia: Guy Dufaux; Montaggio: Isabelle Dedieu; Scenografia: François Séguin; Costumi: Denis Sperdouklis; Musiche: Pierre Aviat; Produzione: Pyramide Productions, Cinémaginaire Inc., Astral Films, Canal+, Centre National de la Cinématographie, The Harold Greenberg Fund, Production Barbares Inc., Société Radio-Canada, Société de Développement des Entreprises Culturelles, Téléfilm Canada; Distribuzione: BIM; Durata: 99 min.; Origine: Canada/Francia, 2003

 


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