Kansas City è l'omaggio di un regista alla propria città (che lo ha visto nascere nel 1925), ma anche, e soprattutto, un doveroso ossequio al Jazz: un film che a tutta prima sembra di una caoticità imbarazzante ma che, ad una più attenta analisi, si dimostra uno stupendo supporto che fa da invidiabile contrappunto all'incessante musica che lo schermo emana.
Altman costruisce il proprio film come una pervasiva "jam-session" dove il "plot" principale viene continuamente ed armonicamente interrotto per far via via posto a flashback narrativamente ambigui (inserti soggettivi di Jennifer Jason Leigh, istanza narrante che mostra in focalizzazione zero, o la vacua Miranda Richardson che immagina ciò che le viene raccontato?), ad assoli mostruosamente eseguiti e a situazioni drammaticamente chiarificanti (Johnny O'Hara, marito di Blondie-Jason Leigh, nelle mani del gangster Harry Belafonte). Il parallelo con la struttura della musica jazz è fin troppo evidente e assolutamente non casuale: una partitura (il film) con una determinata linea melodica (il plot) si spezza regolarmente per lasciare spazio all'improvvisazione (flashback e i vari montaggi alternati).
Ogni cambiamento di tempo o di luogo è sempre motivato e reso fluido da elementi di continuità sia all'interno delle inquadrature sia da rimandi verbali, giustificando così il radicale mutamento di prospettiva; senza contare la compattezza dovuta al sapiente uso della splendida colonna sonora: i jazzisti dello Hey Hey Club suonano in continuazione e il suono dei loro strumenti, dapprima in campo, poi fuori di esso, infine "over", come a caratterizzare un'atmosfera già resa crepuscolare e pastosa dai sapidi toni di un'ottima fotografia, tiene unita la narrazione, contribuendo a motivare l'impressione di un blocco unico che si dipana e s'inarca soltanto per rafforzare e chiarire ciò che Altman racconta attraverso le immagini. Ma se è sentito l'omaggio del regista ad una trascorsa "età dell'oro" per il jazz a Kansas City, dove musicisti come Lester Young, Coleman Hawkins, Count Basie, suonavano senza stancarsi tutta la notte, non meno importante e decisivo, anche se molto meno evidente, è l'omaggio al cinema stesso, non solo inteso istituzionalmente ma anche meccanicamente, come modalità dell'immagine che prima "si fa" e poi "si mostra".
Il soprannome della Leigh è Blondie per una sorta di affinità con il suo idolo Jean Harlow (anch'essa nata a Kansas City); il film che Blondie si reca a vedere nella sala cinematografica è Hold Your Man che, ironicamente, è proprio quello che tenterà di fare nel finale - "tenere" il suo uomo per evitare che si accasci a terra privo di vita; la numerosa presenza di specchi che rimanda a quella concezione metacinematografica del quadro nel quadro, simbolo dell'immagine che si forma e rivela... Pare proprio che Altman, nonostante il suo proverbiale cinico distacco, in Kansas City abbia messo tutto quello che ama. Facendolo amare.
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