Divagazioni lagunari PDF 
Ottavio Plini   

“Il viaggio a Venezia è la sorte di Orfeo: il passaggio all’Aldilà. Tadzio, dunque, è la sua anima. Nelle ultime pagine, von Aschenbach osserva il profilo di Tadzio sul mare. E vede Tadzio camminare sulle acque, nel mentre con un cenno della mano: Caronte, traghettator di morti, lo chiama a sé. Ha smarrito la sua Anima, ed essa – prima demone benigno, alma Euridice; poi satanico Mefistofele, in agguato del Viandante – lo viene a cercare”. Così il musicologo Zignani spiega il percorso esoterico disegnato nella Morte a Venezia di Thomas Mann messa in immagini (e musiche) sublimi da Visconti. Il russo Sokurov filtra viceversa la tematica tipicamente mitteleuropea della ricerca dell’anima ancora una volta attraverso le suggestioni panteistiche della sua terra d’origine: il suo Faust si salva perdendosi nell’infinito, in un paesaggio da “e naufragar m’è dolce in questo mare”, la sua anima, il suo patto, si annullano nella vastità dell’assoluto in uno slancio di entusiasmo sottolineato da una vertiginosa antizoomata dalle pendici di un monte; un punto d’arrivo pregno di spiritualità orientale, da grandi spazi di silenzio steppico o interiore, che aggira entrambi i finali goethiani, quello cattolico del Faust I (Margherita proclamata “salva” dal coro d’angeli nel momento del suo sacrificio, la scelta di attendere la morte rifiutando il soccorso di Mefistofele che contemporaneamente l’ha detta “perduta”), e quello alchimistico col quale oltre trent’anni dopo si sarebbe suggellato il Faust II (il celebre “ciò che passa non è che simbolo – l’eterno femmineo ci trae verso l’alto”). Può infastidire i puristi la macchinosità del lavoro di taglia-e-cuci messo in atto dal regista russo, che mantiene gran parte del Faust I, ne salta appunto il finale lasciando oscuri, oltre che la sorte, il significato di Margherita, e inserendo frammenti sparsi del Faust II. Ciononostante la sua operazione fa respirare un intento spirituale struggente.

A sorte meno estatica fu condotto Oscar Wilde dal suo neopagano culto della bellezza. Al Pacino con Wilde Salome ne ripercorre in affettuosissime cadenze la biografia, peraltro ritrita, in una interessante sperimentazione a metà tra rappresentazione teatrale nel deserto, documentario e making of. Tutti conoscono la vicenda dell’efebo col quale lo scrittore irlandese, dandy edonista, visse i suoi anni più felici, ma volendone, in un eccesso d’orgoglio, querelare il padre per le sue insinuazioni, si tramutò in imputato e col carcere diventò un mistico sfibrato dalle intemperie. (Peraltro il grande vecchio onnisciente Gore Vidal, anch’egli scrittore omosessuale, intervistato, compare per spiegare la poco nota ma plausibile tesi secondo cui si trattò di un’operazione dei servizi segreti preoccupati dal carisma e dalle idee socialiste di Wilde, data la tolleranza con cui l’omoaffettività veniva di fatto lasciata correre negli ambienti aristocratici del tempo). Al Pacino, ossessionato dalla messa in scena della Salome, cerca di illustrarne le valenze allegoriche e psicologiche, vedendovi l’autore proiettato in Erode (personaggio sovente letto solo come vecchio potente arrapato che evoca scenari oggi di pubblico dominio), diviso tra la fascinazione per la sensualità della figliastra e quella per la veemenza del profeta (senza dire della bisessualità sottesa in questa lacerazione): la prima delle quali pulsioni finirà per rovinarlo, come una vicenda sessuale avrebbe rovinato Wilde, come l’attrazione per Tadzio fece a von Aschenbach nel sopracitato romanzo sulla fine della vecchia Europa, come in definitiva l’attrazione per qualsiasi fatale Lolita. Ma a spingersi più a fondo, la Salome non è altro che un Faust lunare e fosco dove al demonio sono state attribuite vesti curiosamente femminili: il giuramento di Erode, che concederà qualsiasi cosa alla figliastra, anche la testa del Battista, se lei danzerà spogliandosi dei suoi sette strati, non è altro che un patto col diavolo che si consuma dopo sette veli di controiniziazione e conduce al taglio della testa del saggio, bestialità sensuale che sopraffà l’idea. Salome nel dramma viene spesso identificata con la luna, e si invita a non guardare troppo entrambe; il capo delle guardie, innamorato di lei, si suicida presentendo qualcosa di terribile. Al Pacino non indaga a fondo tali risvolti, e neanche noi possiamo sapere quanto lo stesso Wilde ne fosse cosciente (ma, sebbene Pacino dimentichi forse grossolanamente di sottolinearlo nei suoi lunghi spiegoni, la vicenda non è wildiana bensì, tratta dagli Atti degli Apostoli, era stata riscritta già da Mallarme e Flaubert oltre che dipinta da Gustav Moreau e ampliamente citata in A rebours di Huysmans, cui Wilde si ispirò anche per Il ritratto di Dorian Gray, e tra tutte quella wildiana è certamente la più sarcastica). In ogni caso fu forse la sua sensibilità artistica che indusse Wilde a forgiare un Faust parallelo, ove il suo lunare decadentismo ribalta la solarità mistica di Goethe, con esiti opposti (la salvezza o la perdizione grazie alla Donna) tali che continuano a suggestionare il cinema e la cultura: di seguito ai vari Richard Strauss, Carmelo Bene, Ken Russell, giusto per fare qualche nome, l’attore-regista hollywoodiano dichiara all’inizio del suo film che “questa è la storia di un’ossessione”.

Se non ha raccolto alcun premio, non sappiamo se anche lo scettico Cronenberg abbia ritrovato a Venezia la sua anima errante: il suo A Dangerous Method (finito nel 2010, rifiutato a Cannes per ragioni non chiare, inserito in concorso perché secondo il presidente Aronofsky Cronenberg aveva declinato il Leone alla carriera “non avendone bisogno”) mette in scena, attraverso il dibattito tra Freud e Jung, le tematiche principali che in modi spesso anche velati hanno innervato il suo cinema dalle origini. I due padri della psicanalisi divengono i due versanti che si contendono la sua interiorità di autore: il principio razionale, analitico, solare, di Freud, secondo cui “accettare il mondo com’è è la via verso la salute”, e che riconduce l’umanità alle sue radici animali, e quello visionario, alchimistico del sensitivo Jung, suggestionato dall’enigma e dalle dimensioni alternative dell’essere dove, direbbe il regista canadese, “you create your own reality, and that’s real”. Il film arriva solo alla prima guerra mondiale, quando la rottura era appena stata consumata, ma accenna che Freud, fuggito dai nazisti, sarebbe morto per eutanasia, mentre Jung, sopravvissuto a tutti, doveva diventare nel giro di pochissimo tempo, secondo la definizione del film, il più grande psicanalista del mondo (spingendo peraltro il suo gnosticismo illuminato a un punto tale da dichiarare, in una delle ultime interviste, “ora non credo, ora so”). Sempre teorico e lucidissimo, Cronenberg presenta un film che denota una volta di più l’esaurimento della sua vena visionaria e surrealista, costruendo un biopic molto classico, forse volutamente in controtendenza con lo sfavillio visivo e narrativo caratteristico dei biopic d’autore, specie contemporanei e postmoderni: dopo che il suo ingresso nella sessantina era stato inaugurato con due thriller dalle sfumature pop, sembra essere tornato all’arsenale della sua formazione filosofica per sviscerare ancora una volta le contrastanti voci interiori che, dai debutti splatter in avanti, hanno ispirato il suo contorto e sovente enigmatico cinema. “Non mi basta, come a Freud, constatare la malattia, intendo condurre il paziente per un viaggio al termine del quale possa ricreare il suo Sé quale era stato destinato”. Così Jung nella scena finale, così la patologia non è soltanto un peso ingombrante, ma diviene una possibilità creativa.

Shock Head Soul di Simon Pummell è forse il miglior esordio vistosi in mostra: dolcissimo e denso di trovate visive psichedeliche, tratta di Daniel Schreber, uno psicopatico tedesco perseguitato da visioni mistiche che all’inizio del Novecento riuscì a guarire parzialmente scrivendo (il suo diario venne esaminato da Freud e sembra abbia un certo valore letterario). Nel film si susseguono interviste a psichiatri professionisti agghindati in fogge d’epoca per spiegare la tesi peraltro già sovente azzardata secondo cui mistici e artisti possono essere parzialmente folli (con l’intento più che di screditare i primi di riabilitare i secondi). Dall’estetica della follia alla follia della mediocrità: Polanski e McQueen interpretano la banalità e lo smarrimento dell’uomo postmoderno, il polacco con qualcosa di peggio che l’abitualmente acido, cinico sarcasmo, ma senza esibire alcunché di nuovo. Carnage è ancora l’esplodere di conflitti (tra famiglie monogame, tra sessi, tra egoismi, tra vite), ma stavolta ambientato non in mezzo a qualche isola deserta (Cul de sac) o a bordo di qualche nave da crociera (Luna di fiele), ma tutto in una stanza (era forse ancora ai domiciliari?): ed ecco confezionato il suo kammerspiel della senilità per il divertimento di critica e pubblico; McQueen, al contrario, inclina verso intonazioni apocalittiche di tonante urgenza morale, tra squallidi scenari metropolitani e cieli vasti ed evocativi. Shame è solo la storia di uno che mette (forse) la testa a posto, ma nel secondo film di finzione di questo videoartista si respira in genere un veemente fervore tragico e catartico.

Abel Ferrara ha finito di porsi questi problemi. Dopo la totale svolta religiosa di Mary, il signore del noir americano arriva con serenità alla fine del mondo per catastrofe climatica: in 4:44 Last Day on Earth la vita di una coppia l’attende tranquilla, lui fa un salto dagli amici e rinuncia all’ultimo sballo, lei dipinge e medita; intanto un maestro buddista spiega alla televisione che la realtà oggettiva non esiste. C’è soluzione, e allora di che ti preoccupi? Non c’è soluzione, e allora di che ti preoccupi? Tanto più che potrebbe esservi qualche angolo di qualche dimensione di questo multiverso dove trasformarci in particelle d’energia o vibrazioni fatate. Come scriveva Burroughs, il futuro dell’umanità è nello spazio.

 


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