Una vita semplice, dimessa, trascorsa sempre al servizio degli altri: è questo il ritratto dell’anziana domestica Ah Tao, che Ann Hui delinea con tratti delicati e composti, sullo sfondo di una Hong Kong sempre frenetica, che poco tempo ha da dedicare a chi non riesce più a tenere il passo. Presa a servizio fin dall’età di 13 anni, Ah Tao ha trascorso la sua intera esistenza presso la famiglia del produttore cinematografico Roger, con il quale ora vive, prendendosene cura. Un ictus improvviso e l’impossibilità di continuare ad adempiere alle proprie mansioni spingono Ah Tao a ritirarsi in una casa di riposo. In questo spazio, angusto come una prigione, abitato da esclusi, abbandonati alla deriva della solitudine, Ah Tao e Roger si riavvicineranno. Il giovane produttore sentirà il dovere di occuparsi di colei che lo ha seguito fin dall’infanzia, facendosi carico di tutte le necessità che l’anziana donna, ormai non più autosufficiente, si troverà ad incontrare.

Troviamo in A Simple Life tutta l’estetica del quotidiano a cui Ann Hui ci aveva abituati nelle sue opere precedenti: il gusto per il dettaglio, l’attenzione verso i volti dei personaggi, l’interesse per il fluire della vita di tutti i giorni. Materiali che si fondono in un quadro intimo e delicato, che mette fuori campo qualsiasi estremizzazione del sentimento per lasciare spazio solo alla fragilità dell’esistenza, all’esilità dei rapporti umani e all’inesorabilità del trascorre del tempo. Con un occhio che guarda a Ozu e alla sua fenomenologia dei minuti drammi del quotidiano, ma con uno stile che, se eccettuiamo i campi vuoti, se ne distanzia molto per ritmo e movimento, A Simple Life, con raffinatezza, ci mostra come “la cura” possa travalicare i vincoli di sangue, di classe e d’età. Attorno ai due personaggi principali, Ah Tao e Roger, si crea un nuovo focolare domestico, non interrotto dalla distanza che li separa né dalla saltuarietà dei loro incontri, un sentimento che, travalicando spazio e tempo, manifesta l’essenza del legame familiare, fatto di riconoscenza, di scambio reciproco, di volontà di donare. Un rapporto, il loro, che appare tanto più profondo quanto più evita di manifestarsi attraverso le parole, balenando invece negli sguardi, nelle attenzioni, nei dinieghi, negli imbarazzi. C’è molta dignità nella figura di Ah Tao, la dignità di una donna che rifugge i gesti di generosità magniloquenti, che con pudore declina tutto quanto gli viene offerto, che sembra non chiedere nulla se non di non essere dimenticata.

Su tutti il tempo irreversibile, la presenza costante della morte, poco appariscente ma non per questo meno ineludibile: improvvisa, evitata, ma immediatamente di ritorno, la morte ci appare come termine naturale di un viaggio, tragica per il vuoto che apre, ma così radicata nello scorrere delle cose da perdere quel carattere di eventualità inaccettabile che la caratterizza, almeno in Occidente. E così, in un mondo abitato da uomini le cui piccole storie si succedono senza posa, Ann Hui sembra dirci che ciò che importa davvero al termine del nostro viaggio sono unicamente gli affetti e le relazioni che siamo riusciti a crearci, grazie ai nostri sforzi, lungo il breve cammino che abbiamo percorso.

Titolo originale: Tao jie; Regia: Ann Hui; Sceneggiatura: Susan Chan, Yan-lam Lee; Fotografia: Nelson Yu Lik-wai; Montaggio: Chi-Leung Kwong, Manda Wai; Scenografia: Albert Poon; Musiche: Wing-fai Law; Produzione: Bona International Film Group, Focus Films, Sil-Metropole Organisation; Distribuzione: Tucker Film; Durata: 118 min.; Origine: Hong Kong, 2011