64° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia PDF 
Lorenzo De Nicola   

ImageUna palla sfonda un muro (è l’interruzione di una prova d’orchestra?) e la Mostra del Cinema di Venezia raggiunge il numero 64. I leoni scappano in tutte le direzioni, ma al tempo stesso arrivano i film, gli attori, gli autori che animano il festival settembrino al Lido di Venezia.

Un festival che, nel bene e nel male, conferma il suo primato in vetta alle classifiche delle manifestazioni internazionali e che anche quest’anno - malgrado un’edizione di Cannes che poteva vantare la presenza di quasi tutti i più significativi cineasti del mondo - ha saputo offrire al suo pubblico molti titoli d’alta qualità. Una qualità che è rimasta costante per tutti i dieci giorni, malgrado non abbia fatto registrare, come magari è capitato nelle precedenti edizioni, dei veri e propri picchi. Inoltre, come ogni anno, è impossibile non constatare la sempre più massiccia presenza di titoli di produzione americana che s’impongono forti, potenti e - come spesso capita - anche invadenti. Veri e propri blockbuster che forse potrebbero attendere il loro passaggio nelle sale attraverso i consueti canali di distribuzione, anziché beneficiare, per fini promozionali, di una vetrina così importante a discapito di altre produzioni meno imponenti.

Ma veniamo al concorso. Nei primi giorni del Festival non sembrava facile per la giuria - presieduta da Zhang Yimou e composta da Catherine Breillat, Jane Campion, Emanuele Crialese, Alejandro González Iñárritu, Ferzan Ozpetek e Paul Verhoeven - il compito di individuare i più meritevoli in una rosa di 23 lungometraggi che hanno dato vita ad una kermesse eclettica fino all’accesso, quasi schizofrenica. Da De Palma a Kechiche, da Miike Takashi a Rohmer, da Mikhalkov a Ken Loach sono solo alcuni esempi delle direttrici che s’intersecavano nella competizione e che rendono il sapore di quello che è stato il concorso: variegato, impalpabile, sfuggente. Eppure, proiezione dopo proiezione, si è avuta l’impressione che uno disegno sottendesse quella complicata e fitta rete di titoli. Un disegno che è stato vagliato e certificato dai premi assegnati, anche se i più discutibili sembrano essere stati proprio il Leone d’Oro, nuovamente assegnato ad Ang Lee (a due anni da Brokeback Mountain) per Se, jie (Lust, Caution), e il Leone d’Argento finito nelle mani di Brian De Palma per Redacted. Se il primo, infatti, non si discosta dal film “vecchia Cina” firmato Ang Lee, il secondo - così tanto inutilmente discusso - si fa notare per il didascalico, retorico e preoccupate atteggiamento che i film bellici a stelle e strisce sembrano ormai abbracciare. Pare infatti si stia insinuando nella produzione nordamericana un vero e proprio genere che ha come sfondo il drammatico conflitto iracheno trasformatosi da punto di forza della politica espansionista di Bush a vero e proprio tallone d’Achille.Image

Che la guerra in Iraq sia un problema per gli Stati Uniti è un fatto ormai assodato: basti pensare al videoclip recentemente confezionato dai Green Day in cui un giovane abbandona la propria fidanzata per recarsi in guerra al prezzo di terribili sofferenze e, ancora più recentemente, al lancio da parte di Avril Lavigne di un singolo accompagnato da un video pressoché identico. E così il cinema inizia ad interrogarsi apertamente sulle reali motivazioni del conflitto, sulle problematiche dei nuovi reduci, su una guerra che mescola, in maniera cinica e perversa, il denaro e la religione, estremizzando, a proprio favore, il ruolo dei mezzi di comunicazione. Film come il sopra citato Redacted, In the Valley of Elah di Paul Haggis e Man from Plains di Jonathan Demme hanno in comune tematiche sacrosante, come l’inutilità e gli orrori della guerra, il drammatico scontro tra due popoli che si ripercuote sui giovani e sulle loro menti, la necessità di porre un rimedio ad una situazione di crisi (fin troppo eloquente a questo proposito la bandiera issata al contrario nell’inquadratura finale del film di Haggis). Ma ciò che non convince e che dovrebbe far scattare un campanello d’allarme nello spettatore è la modalità con cui queste produzioni affrontano argomenti così scottanti senza mai perdere di vista quanto l’industria hollywoodiana, proprio in quanto sistema industriale e commerciale rivolto alla massa, possa essere legata a doppio nodo con la politica. Infatti, anche nelle espressioni più crude e aggressive, si avverte un senso di ineluttabilità che sfocia spesso in quella che si potrebbe definire un’assimilazione mascherata da rabbiosa denuncia. Verità come la mancanza delle armi di distruzione di massa, la violenza subita ma anche quella inferta dai soldati americani, la pressione manipolata e manipolante dei mass media sono ripetute in ogni film e, in questo modo, gradualmente sdoganate. Viene pertanto spontaneo chiedersi se dietro queste operazioni ci sia un reale intento fustigatore o, piuttosto, un furbesco tentativo di far accettare al grande pubblico verità scomode con uno spirito di denuncia diventato quasi, paradossalmente, politically correct. Ma forse è meglio fermarsi qui.

Il conflitto afghano-iraqueno non è stato l’unico protagonista di questo festival, in cui molte erano le pellicole a sfondo bellico. È doveroso, in tal senso, citare l’ambiguo Sous les bombes, di Philippe Aractingi, in cui il regista trascina i due bravissimi attori in Libano all’indomani del cessate il fuoco, facendoli muovere tra carri armati, abitazioni devastate e ospedali di rifugiati. L’operazione, tanto interessante quanto discutibile, ha come risultato un film emozionante e commovente, il cui crudo realismo fa temere a volte lo spettro di un calcolato cinismo. E ancora vengono affrontati il dramma israeliano-palestinese con Disengagement di Amos Gitai, quello russo-ceceno con 12 di Nikita Mikhalcov (secondo remake del bellissimo La parola ai giurati di Lumet, terzo se si considera la puntata di Happy Days in cui Fonzie, attraverso le sue conoscenze motociclistiche, evita il carcere ad un povero ragazzo di colore) fino agli sguardi al passato più o meno prossimo con The Hunting Party di Richard Shepard e di Hotel Meina di Carlo Lizzani.

ImageAccanto alla guerra, altro tema dominante è stato indubbiamente quello del lavoro. Affrontato di petto dal solito Ken Loach, che col suo It’s a free world…si è aggiudicato il premio Osella per la sceneggiatura, questa problematica è stata affrontata anche dal bellissimo La Graine et le Mullet di Abdellatif Kechiche e, in maniera tangenziale, anche da Andalucia, il secondo film di Alain Gomis dopo L’Afrance, nonché da L’ora di punta di Vincenzo Marra. Quest’ultimo, sempre in concorso, narra la storia di un rampante ragazzo di provincia (goffamente interpretato da Michele Lastella) che tenta la scalata sociale attraverso l’arruolamento nelle fiamme gialle e poi entrando in un vizioso circolo di bustarelle, ricatti e scambi di favori tutti made in Italy. Purtroppo Marra non riesce a conferire al suo personaggio il giusto sviluppo drammatico-emotivo e il film finisce ben presto per sfilacciarsi. Destino che, purtroppo, viene condiviso dalle opere di alcuni suoi colleghi come l’algido Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi o i discutibilissimi Valzer di Salvatore Maira (per cui la protagonista, Valeria Solarino, si è aggiudicata il Premio Wella Professionals Cinema Donna 2007) e Le ragioni dell’aragosta di Sabina Guzzanti.

Ad un primo sguardo, e come si è subito ottusamente sottolineato su alcuni quotidiani nazionali, si potrebbe far scattare la solita futile denuncia sulla crisi del cinema italiano. Tuttavia, malgrado sia vero che troppo spesso la debolezza delle nostre produzioni fa sì che la critica si spenga in veri e propri cul de sac (a Venezia si è parlato a lungo dell’erezione di Elio Germano in una sequenza piccante del film di Franchi!!), è altrettanto vero che sovente non si sanno valutare opere dignitose che scorrono più in sordina sugli schermi del Lido. Ad esempio, si potrebbero citare l’equilibrato Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati, che affronta per l’ennesima volta l’abusato tema della mafia con delicatezza e intelligenza; ma anche La ragazza del lago di Molaioli, che costruisce un noir godibile, anche se troppo debitore allo “stile Sorrentino”; e ancora il documentario Il passaggio della linea di Pietro Marcello, che si cala nella realtà dei treni notturni a lunga percorrenza andando a scoprire un vero e proprio limbo animato da figure curiose e borderline. Ma il cinema nostrano si è fatto notare anche per la retrospettiva dedicata allo spaghetti western, in cui campeggiavano titoli mitici come Django (1965) di Sergio Corbucci,  Oro Hondo (1967) di Giulio Questi, Tepepa (1968) di Giulio Petroni, nonché  per il Leone d’Oro per il 75° anniversario della Mostra al maestro Bernardo Bertolucci, del quale si sono potuti rivedere sul grande schermo La via del petrolio (1967) e La strategia del ragno (1970). Alla Mostra erano anche presenti altri maestri che hanno presentato i loro lavori, come il quasi centenario De Oliveira con Cristovao Colombo – O enigma, un approfondimento “personalissimo” sul celeberrimo navigatore; o Julio Bressane, che con Cleopatra rilegge in chiave metafisica il mito dell’ultima regina d’Egitto dando vita ad uno dei film migliori di questo festival; e anche Peter Greenaway, che forse avrebbe meritato qualcosa in più con Nightwatching che racconta le vicissitudini vissute da Rembrandt durante la realizzazione del suo celeberrimo La ronda di notte. E ancora, nella sezione “Fuori Concorso -  Eventi”, si sono ricordati altri maestri come Antonioni, Bud Boetticher, Griffith e Sergio Leone.Image

Eccoci dunque a dover tirare le somme di questa edizione. Come ogni anno la Mostra del Cinema si presenta al suo pubblico in maniera placida e blasonata. Probabilmente si sentirebbe l’esigenza di più tinte forti, che si sono viste solo sporadicamente con opere come lo stupendo Gruz 200 di Alexey Balabanov, Rec, l’adrenalinico horror firmato a quattro mani da Jaume Balaguerò e Paco Plaza, il coloratissimo The Darjeeling Limited di Wes Anderson o l’indipendentemente sincero The Speed of Life di Edward A. Radtke. Senza dubbio il Festival continua ad offrire, anno dopo anno, opere di buon livello, ma bisognerebbe forse domandarsi se la qualità possa per una volta cedere il passo a lavori dalla confezione meno pregiata, dal taglio più immediato e urgente. Per questo, non rimane che attendere Venezia 65.

 


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